Il senso di Ferdinando Scianna per la Sicilia. Disegnando il mondo con l’ombra

Tra i maggiori protagonisti della ricerca fotografica, Scianna, da sempre in scuderia Magnum, rintraccia nella Sicilia l’origine del suo sguardo sul mondo. Una mostra a Catania mette insieme un nucleo di immagini legate alla sua terra

È nera la Sicilia di Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943; vive a Milano), affondata nel buio di palpebre chiuse, occhi strizzati, serrande abbassate, vicoli, androni, sotterranei, frescura di interni domestici o chiese, col sole fuori che abbaglia e disegna fantasmi in lontananza: le isole minori, la punta della Calabria, quasi un principio d’Africa, più a Sud. Qui risuona, come sedimento identitario, l’alfabeto intimo di una Sicilia sempre scissa: tra lo spazio del visibile e il mistero di un tempo arcaico; tra l’imperativo di un paesaggio meridiano e l’urgenza di un conforto d’ombra; tra la vita celebrata, affermata, rincorsa, e la morte sempre tenuta a mente. Così la notte buca lo sguardo spalancato sul giorno, l’una potenziando l’eco dell’altro.”Come fai a guardare il mondo diversamente se appena hai aperto gli occhi hanno chiuso le finestre perché c’era troppo sole? Le nostre case sono piene di persiane, di luce che filtra, di finestre a bocca di lupo. In Olanda fanno case di vetro perché di luce ce n’è così poca che non se ne può sprecare“. Sono parole del grande fotografo originario di Bagheria, tratte da “Autoritratto di un fotografo” (Contrasto, 2022), uno dei tanti ispirati volumi a cui negli anni ha consegnato memorie, studi, riflessioni.

Scianna e il rapporto con la Sicilia

Una ricerca, la sua, proiettata in avanti, fortemente internazionale, mai condannatasi al provincialismo, al sentimentalismo, alla cronaca spiccia e alla mimesi autoreferenziale. Ma senza dimenticare quel baricentro, quella matrice di pietra vulcanica, di marna bianca o pietra arenaria, di corpi reali e di silhouette immateriali. Una Sicilia in cui vanno rintracciati radici e destino del suo lavoro. E che è anche cuore della mostra allestita al Castello Ursino di Catania, progetto curato da Paola Bergna e Alberto Bianda, promosso e prodotto dal Comune di Catania con Civita Sicilia.
Così continua Scianna nel suo libro: “A me il sole appassiona perché fa ombra. Costruisco le immagini a partire dall’ombra. La luce e il lutto, un titolo di Gesualdo Bufalino, esprime bene questo sentimento. Il seme della contraddittorietà profonda che da fatto fisico, atmosferico, diventa anche culturale, psicologico“. Il rapporto con la Sicilia è dunque imprescindibile. Non solo per via dei soggetti, elementi di un teatro tragico intrisi di un sentimento alto (e mai nostalgico) del passato; ma anche per questa sua maniera di stare al mondo che è corrispondenza perfetta tra vocazione fotografica e origine geografica. Una forma di pensiero sull’esistenza e sulle cose che non prescinde da una data condizione insulare. E che vi trova, sul fondo, sorprendenti ragioni.Visibile e invisibile, presenza e assenza, conservazione e sparizione, la traccia imperitura e la corsa del tempo. La distanza e la prossimità. La morte al lavoro. L’infinita gamma dialettica del bianco e del nero, tra dolcezza e violenza. L’immagine come salvezza (o condanna) dell’eterno istante. Tutti temi che Scianna ben conosce e che sono stati nutrimento, nel corso di una lunga attività fotografica ed editoriale.

Sant'Elia, 1982 © Ferdinando Scianna
Sant’Elia, 1982 © Ferdinando Scianna

Fotografia, tra provincia e periferia  

Tutto comincio lì, nella sua Bagheria, a una manciata di chilometri da Palermo. Un piccolissimo luogo ai confini estremi del continente, che fu per lui ispirazione, conoscenza, tormento, innamoramento. Grammatica e letteratura. L’incipit e l’addio. Il posto in cui trovarsi e da cui allontanarsi per conquistare la propria maturazione: presto vennero Milano, Parigi, il mondo. E non fu più l’ora del ritorno.
Continua, Scianna, nel suo autoritratto di parole: “Ho adottato una frase di Ernesto De Martino: ‘Soltanto chi ha un villaggio nella memoria può realizzare un’avventura cosmopolita’”. E ancora: “Dalla Sicilia non si va via, si fugge a gambe levate, e questo produce una lacerazione che non si finisce mai di tentare di colmare. Siamo andati via a migliaia, verso il mondo intero. La propria Itaca uno se la porta dietro, la cerca e la vede dentro sé stesso e ovunque. Forse è questo che produce il racconto, per me senza nostalgia e senza fine. (…) Pare che dal centro si vedano meno acutamente che dalla periferia le sequele di catastrofi storiche. (…) Nella periferia si sviluppa il desiderio della conoscenza e un dolore, un sentimento di esilio in patria, che produce letteratura, narrazione“. Allontanarsi, pronunciare il più risoluto degli addii, coltivare il desiderio e combattere l’oblio, mantenendo quel senso profondo della storia, tra pathos e crisi: terreno fertile per lasciar germinare il racconto, mentre diventa territorio d’elezione la fotografia, “così inestricabilmente legata al sentimento struggente di ciò che scompare”.
La mostra catanese sceglie allora una sintesi lineare e un taglio tra i più semplici, con 80 fotografie celebri sospese in un’ampia sala del castello. Non l’occasione per una retrospettiva o una rilettura critica, ma la possibilità per il grande pubblico di intercettare quell’origine così determinante nella storia creativa e intellettuale dell’autore.

Palermo, 1986 © Ferdinando Scianna
Palermo, 1986 © Ferdinando Scianna

Alcuni scatti al Castello Ursino

E a proposito di ombre, pare quasi un manifesto lo straordinario scatto dell’82 che coglie la figura di un bambino, sul bordo di una strada dissestata di Capizzi, paesino del messinese, lungo un muro che diventa quinta, schermo di proiezione, teatrino delle apparizioni, degli incubi, delle fantasmagorie. Una catena di sagome nere sovrasta il ragazzino, forse adulti, forse altri bambini, intenti a reggere una fune o a fare chissà cosa: l’azione esiste fuori dallo spazio fotografico, oltre i limiti del campo visivo, al di qua della scena, mentre il sole illumina il piccolo protagonista anonimo e trasforma il resto – focus reale dello scatto – in un’apparizione, una supposizione. Enigma sospeso tra la minaccia e il gioco.
E così torna sovente l’equilibrio fra trasparenze, nitidezze, velature, porzioni di materia che si raggruma, si staglia o si dissolve, mentre la narrazione sfugge alla legge dell’univocità, della chiarezza. Come in quel ricamo di tendaggi, sulla soglia tra una casa e un cortile, poesia minuta di un primo pomeriggio dal cielo bianco, nel dialogo muto tra personaggi di schiena o di profilo, di cui si intuiscono appena i contorni, fusi con le trame dei merletti e delle ombre.
O come in quel famoso tuffo a due da un ripido scoglio di Sant’Elia, pittoresco borgo marino tra Santa Flavia e Porticello: i corpi sono piccoli ritagli di carta incollati tra la roccia bruna, il cielo terso e la montagna laggiù. Ancora una volta è il ‘non visto’ a descrivere la scena, quello dei tuffatori tramutati in sagome scure e quello del mare, attore principale sottratto allo sguardo, di nuovo spinto oltre il bordo della foto, che così inizia a fremere, a tendersi, a spingere l’immagine verso un altrove.
Nera è l’Etna fotografata nell’83, con tutta la furia di un’eruzione che nella memoria collettiva ha il rosso sangue di una tela di Guttuso e che qui diventa anatomia onirica, trasfigurata in uno sfavillio magmatico: aperture di pura luce tra le forme sinuose del vulcano, restituito nel vigore di un corpo di titano. E il racconto del sacro, celebrato nell’iconica pubblicazione firmata nel 1964 con l’amico Sciascia (“Feste religiose in Sicilia”, vincitrice del Premio Nadar), qui rivive ad esempio nel pulviscolo di una foto sgranata, dissolta e risolta nel rumore della pellicola, quasi un disegno a carboncino o un’acqua tinta: gli incappucciati di una processione del ’62, durante i riti della Settimana Santa a Enna, si trasformano in un nucleo di ectoplasmi, una visione interiore o un residuo sfumato, fuligginoso, recuperato tra i recessi della memoria.

Leonardo Sciascia, 1964 © Ferdinando Scianna
Leonardo Sciascia, 1964 © Ferdinando Scianna

Da Marpessa a Sciascia nell’opera di Scianna

A incarnare il femminile, nella sua veste più sensuale e glamour, è la modella olandese Marpessa Hennink, musa dalla bellezza statuaria, magnetica, inquieta. Scianna la conobbe a fine anni ’80, mentre faceva il suo debutto come fotografo di moda per Dolce & Gabbana, catapultandola dalle maggiori passerelle fashion agli scorci di una Sicilia popolare, in un contrasto seducente, disturbante, sempre costruendole intorno occasioni di narrazione: come nell’ironica, feroce giustapposizione tra il massiccio tocco di carne, portato a spalla da un macellaio palermitano, e il flessuoso corpo di lei, sfiorato dalle grinze dell’abito leggero e divorato dagli occhi di lui; o come nel triangolo che vede due gemelline in primo piano, vestite di tutto punto – tra Kubrick e Diane Arbus – e Marpessa immobile, più indietro, in posa su una grande scalinata. 
L’ultima sezione della mostra è un omaggio a Leonardo Sciascia, a cui Scianna dedicò molti ritratti, qui messi in fila, fino ad arrivare all’ultimo, scattato poco prima della morte dello scrittore. Di lui Sciascia aveva detto: “È il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e il suo obiettivo si leva obbedisce proprio in quel momento, né prima né dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e – in definitiva – al suo stile.” Suggestione che assegna alla fotografia un potere simbolico intriso di magia: non è fosse l’occhio di chi scatta a imporre al mondo il proprio volere, arrivando a modificarne la sostanza, a piegarne gli angoli e i confini? L’arte di intercettare una data vibrazione sotterranea ed inverarla. E così arrestare, nel flusso indistinto del presente, l’incantesimo di ogni fotogramma potenziale. Non sia dunque la fotografia a farsi copia del reale, ma la realtà stessa a lasciarsi fare, disfare, scavare dall’occhio fotografico, risorgendo a ogni scatto in forma nuova, tra i confini dell’immagine e sempre al di là. Mentre la luce è scrittura di ombre e l’ombra insegna il potere di un’altra rivelazione.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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