Fotografare l’architettura. Intervista a Massimo Listri
“Fotografavo continuamente, giorno e notte”. In questa intervista, Massimo Listri ripercorre la sua carriera, votata alla fotografia dell’architettura in Italia e nel mondo
Architetture e prospettive di edifici antichi che restituiscono un senso di armonia, quelle fotografate da Massimo Listri (Firenze, 1953) in Italia e all’estero: dalla Reggia di Caserta a Palazzo della Cancelleria a Roma, da Villa Poggio Imperiale a Firenze al Palazzo Ducale a Venezia, dall’Alcazar a Siviglia al Castello di Champs de Bataille a Le Neubourg, Normandia. Immagini che sono state selezionate per il progetto L’Arte si prende Cura, promosso dall’Ambasciata del Sovrano Ordine di Malta presso la Santa Sede su iniziativa dell’Ambasciatore Antonio Zanardi Landi, con l’obiettivo di portare l’arte e la bellezza nei luoghi del dolore e della sofferenza come conforto e “medicina dello spirito e dell’anima”. Grazie al sostegno della Fondazione Angelini e alla donazione dei diritti d’autore delle fotografie da parte di Listri, una trentina di immagini a colori in grande formato (documentate nella pubblicazione edita da Allemandi) verranno collocate negli ambienti dell’Ospedale di San Giovanni Battista della Magliana a Roma e in tutti gli ambulatori dell’Ordine di Malta in Italia e in alcuni all’estero.
Intervista a Massimo Listri
L’incontro con l’editore Franco Maria Ricci, che nel 1982 aveva fondato la rivista FMR, è stato fondamentale per lei. In particolare, qual è stata l’importanza della carta stampata nel veicolare il suo lavoro?
In FMR avevo trovato la rivista che mi dava spazio per quello che volevo fare. Ero io a proporre alcuni servizi «fotogenici». Scoprivo uno scultore antico, o magari un’architettura insolita e proponevo il servizio a FMR. All’epoca non si potevano stampare foto in un formato molto grande. Con l’ingranditore il formato massimo di stampa, sia delle foto in bianco e nero che a colori, era 50×70. Il salto è avvenuto alla metà degli anni Novanta, quando hanno cominciato a costruire le macchine per stampe in grande formato. Nel frattempo mi ero creato un enorme archivio di immagini. Non solo fotografie illustrative, ce n’erano anche alcune che avevo fatto per me, magari durante la realizzazione di un libro in un certo luogo. Avevo una scaletta di foto da fare, ma poi ne saltavano fuori due o tre un po’ più astratte, che non sarebbero state pubblicate nel libro. Questo mi ha permesso di avere molto materiale per le mostre che sono venute dopo.
Nella sua carriera ha pubblicato oltre 80 libri, tra cui Tavole d’autore, Cabinet of Curiosities, Interni d’Oriente, Il fascino delle Biblioteche…
Economicamente i libri sono quasi una rimessa perché per realizzarli bene impiego tantissimo tempo. Ma nella produzione del libro ci sono sempre due o tre immagini che poi inserisco nelle mie mostre. Ora sto lavorando a quattro libri per la casa editrice Taschen – sui teatri nel mondo, sul Messico, sui palazzi italiani e sui giardini in Europa – e, ad esempio, sarebbe impossibile per me andare in settanta palazzi diversi e fotografarli per il libro sui palazzi italiani. Per fortuna ho già parecchio materiale in archivio, per cui vado a fotografare solo quelli che mi mancano. Ma lo faccio volentieri. Nel senso che, come dicevo, capita sempre di scattare anche la foto più poetica, meno illustrativa, che mi serve per il mio lavoro vero. I libri sono un’appendice, però fino alla metà degli anni Novanta riviste e libri rappresentavano il mio lavoro principale.
È conosciuto per le fotografie a colori, non le è mai interessato il linguaggio del bianco e nero?
Quando ero giovanissimo facevo foto in bianco e nero. Erano sia immagini di architettura che personaggi. A vent’anni mi capitava di passare anche una giornata intera con Eugenio Montale, Zavattini, Moravia o registi come René Clair, Liliana Cavani, Pier Paolo Pasolini. Trascorrevo del tempo con loro e facevo dei ritratti più intimi, non in posa. Allora lavoravo con una reflex. Ogni tanto andavo nelle redazioni e vendevo i ritratti. Ricordo quando andavo a L’Espresso in via Po, a Roma dove mi facevano un buono, andavo alla cassa e prendevo i soldi.
La fotografia di Massimo Listri
Ha cominciato a fotografare quando era diciassettenne a Firenze. Cosa l’ha spinta verso la professione del fotografo?
Finito il liceo già collaboravo con delle riviste, poi ho frequentato per un anno e mezzo la facoltà di Lettere. Mio padre, infatti, era un intellettuale, giornalista e critico letterario, ma ormai la mia strada era già tracciata. Fotografavo continuamente, giorno e notte. La fotografia, per me, era il modo più rapido per esprimermi. Non avevo il dono di scrivere, né di dipingere ma passavo nottate intere – fino alle cinque del mattino – a stampare fotografie in camera oscura. I primi lavori li ho fatti nel ’78. Erano fotografie di architettura industriale per l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Ho proseguito così fino al 1981, poi sono passato alle belle riviste anche perché in Italia il boom delle riviste, che ora purtroppo stanno morendo, è stato proprio all’inizio degli anni Ottanta.
Fotografa sempre con il banco ottico?
No, ho smesso. Prima lavoravo con macchine che pesavano trenta chili. Era complicato spostarsi. Oggi, invece, ci sono macchine digitali che hanno superato la qualità del banco ottico. Però fotografare con il banco ottico mi è servito tantissimo. Facevo tutto con il banco ottico, quando i miei colleghi lavoravano con il 6×6 che era un giocattolo. Mi ricordo che viaggiavo con il valigione del banco ottico: andavo a New York, Mosca, ovunque nel mondo. Poi una volta, in Libia, non me l’hanno fatto passato ai controlli e l’ho dovuto lasciare lì per poi riprenderlo al ritorno, per fortuna avevo con me anche la reflex. Certamente mi è servita l’esperienza di aver scattato molto in passato. Ora faccio pochissimi scatti, prima invece ne facevo tanti. C’è una sorta di pulizia nell’occhio, come per i grandi scrittori – da Hemingway a Simenon – che sintetizzano nell’uso della scrittura.
Ha fatto riferimento ai ritratti intimi, invece nelle sue fotografie di architetture la presenza umana è indiretta…
Queste architetture sono la creazione dell’uomo. L’uomo non c’è ma la sua presenza si sente. C’è un’anima negli spazi di queste fotografie.
Quando si reca in un luogo, cerca prima delle informazioni, lo studia?
No. È tutta intuizione. Molti lo chiamano talento.
C’è una foto che le è mai capitato di non riuscire a scattare?
No. Magari ci sono luoghi che vorrei fotografare ma dove non sono ancora riuscito ad andare. Ho un quaderno rosso dove sono segnati tutti quei posti. Tempo fa, ad esempio, ero a Washington per la mia mostra ed erano anni che volevo andare a fotografare il Tempio Massonico a Philadelphia, finalmente ci sono riuscito. L’ambasciata ha fatto una telefonata e il giorno dopo mi aspettavano lì tre signorine. Ho preso il treno, il taxi e sono riuscito a fotografarlo.
C’è mai stato un soggetto più difficile di altri da fotografare, magari per via della luce?
Luci, spazi, non simmetria sono tutte cose che influiscono nel risultato finale, ma non c’è un soggetto più difficile di altri da fotografare. Magari ci sono luoghi più fotogenici, altri meno.
Manuela De Leonardis
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