Il fotografo Anders Petersen racconta i segreti dietro ai suoi scatti
Come dice in questa intervista, un fotografo non è solo un ladro: deve essere anche Babbo Natale, restituendo qualcosa ai soggetti. È questa la filosofia di Anders Petersen ora anche in mostra a Napoli
Sono immagini “sonore”, quelle del fotografo (Stoccolma, 1944) Anders Petersen, in mostra a Napoli, presso la Spot Home Gallery. Nel loro bianco e nero contrastato, restituiscono le aritmie di una città complessa come quella in cui sono esposte: i suoi rumori, il caos. Lo fanno per frammenti, in un rincorrersi nello spazio e nel tempo. L’artista svedese, Photographer of the Year ai Rencontres d’Arles 2003, ha realizzato questa serie di circa 60 immagini fotografiche nel corso del 2022, durante la residenza svoltasi in un due diverse stagioni nel capoluogo partenopeo. Ce ne racconta i segreti in questa intervista.
Intervista al fotografo Anders Petersen
Questa nuova serie fotografica dal titolo Napoli può essere considerata un omaggio alla città?
Sì, certamente è un omaggio alla città, ma anche alle persone, all’atmosfera, alla vitalità di Napoli. Basta stare in piedi, tenendo su la macchina fotografica, e le immagini vi saltano dentro come conigli. È così facile fotografare liberamente qui.
Che tipo di macchina fotografica usi?
Ho una fotocamera amatoriale (prende in mano la Contax T3 – ndR) – un tipo piuttosto semplice, analogico. Quando l’ho comprata costava 350 euro, ora invece ne costa quasi tremila! Non è male, anche se non si può fotografare bene con una luce solare intensa.
Quante volte sei tornato qui per fotografare?
La prima volta sono stato a Napoli nel settembre 2021, per il workshop di una settimana organizzato da Carlo Roberti di TPW. In quell’occasione Cristina Ferraiuolo mi ha proposto di fare questo progetto. Sono tornato a Napoli nel corso del 2022, a maggio e tra ottobre e novembre; ogni volta per un periodo di due settimane. Anche in quell’occasione, camminando per la città, la mia prima impressione era stata quella sua forte energia che saltava – puff – la vitalità della gente, la fretta alla Speedy Gonzales dei motorini, anche il pericolo. Il modo di vivere e di reagire così velocemente. Vengo da un paese molto rigido della Scandinavia, la Svezia – sicuramente più rigida di Napoli – ed è incredibilmente bello vedere come la vita reciti in modo teatrale proprio di fronte a te, sul pavimento, nelle strade. All’improvviso vedi la vita e la morte. Non posso certo cogliere tutto ciò con la mia piccola fotocamera, ma lo vedo, e voglio che quella confusione sia presente nelle fotografie. Mi sento vivo in questa città.
Nel fotografare la gente in questo modo quasi teatrale ti avvicini molto con la macchina fotografica…
Mi avvicino quanto sono le persone stesse a volere. Non mi spingo. Deve essere un’intesa reciproca, un’accettazione tra loro e me. Penso che in situazioni del genere per qualsiasi fotografo si debba mostrare pazienza e interesse. Non è uno scherzo.
Non si fotografa in maniera meccanica – bisogna vedere, sentire. Prima si vede, è giusto, ma poi si sente. Vedere soltanto è niente. Sentire è molto più interessante. Ad esempio, percepire come in un secondo quell’uomo si muoverà, girandosi verso quel bambino. Aspetto, mi metto appena un po’ da parte, scatto e poi torno indietro molto lentamente. Non mi vedono, non parlo con loro. Questo è molto spesso il mio modo di fotografare. C’è anche il rispetto, una sorta di voyeurismo. Amo sedermi in un caffè e osservare la gente. Posso rimanermene seduto per ore, senza muovermi né scattare fotografie. Solo osservando e pensando che tipo di persone ho davanti, la relazione che c’è tra loro. Mi affascina immaginare delle storie.
Il bianco e nero è il tuo linguaggio. Continui a stampare da solo le fotografie nella camera oscura?
Sì, lo faccio ancora. Il lavoro in camera oscura è importante: è così divertente, affascinante e anche sensuale, stare lì, nella luce rossa, e ascoltare il suono dell’acqua. E poi veder uscire fuori dalla carta bianca, improvvisamente e magicamente, qualcosa che hai fotografato qualche tempo prima.
È fantastico.
Tuttavia, un anno e mezzo fa, ho avuto un intervento alla schiena e quando lavoro con l’ingranditore non posso stare in piedi a lungo. Ora, perciò, stampo le mie fotografie solo per collezionisti e musei, non più per le mostre. Sarebbe veramente troppo per me.
Usi prevalentemente il formato verticale, c’è un motivo particolare?
Quando ad Amburgo, all’inizio, scattavo le fotografie nella prigione o nell’ospedale psichiatrico, usavo soprattutto il formato orizzontale. Dopo un po’, io stesso mi sono sorpreso del cambiamento. Ho cambiato approccio, molto più verticale. Avevo capito che fotografare in verticale avvicina. Non saprei spiegare il perché, ma è così.
A proposito di Amburgo, nel 1967 al Cafè Lehmitz, hai cominciato a realizzare un lavoro che è stato particolarmente significativo per te: uno spaccato della società ai margini. Nel ’78, poi, Schirmer/Mosel ne ha pubblicato il libro che oggi è un cult.
Era l’ottobre 1967. Ero ad Amburgo per incontrare gli amici del gruppo che avevo conosciuto anni prima, nel ’62, quando ero andato lì per studiare. Eravamo diciannove, venti persone, provenienti da diversi paesi: Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, c’ero anch’io e naturalmente i tedeschi. Gertrude faceva parte del gruppo. La incontrai alle tre di notte allo Scandinavian bar. Le chiesi dove avrei potuto incontrare gli altri con l’idea di fare delle foto, ma erano andati via quasi tutti. Lei mi disse di trovarci il giorno dopo al Cafè Lehmitz all’una di notte, perché di giorno dormiva. Non ero mai stato in quel locale. L’aria era satura di fumo. Alla fine riuscii a trovare un piccolo spazio dove poter poggiare la mia macchina fotografica sul tavolino. Prima si avvicinò un ragazzo, abbiamo parlato e bevuto facendo Skål – cin cin – più volte. Cominciai a ballare con bellissime signore; poi, ad un certo punto, mi accorsi che la mia macchina fotografica non era più sul tavolo. Era nello spazio, veniva lanciata da qualcuno che scattava foto e poi la lanciava a qualcun altro che, a sua volta, faceva altre foto. Ero un po’ ubriaco, ballavo e vedendo che stavano fotografando con la mia macchina fotografica chiesi di fotografare anche me. È andata così. Gertrude arrivò dopo due ore dopo e vedendo come stavano andando le cose, mi disse che potevo rimanere e continuare a fotografare. Così rimasi per parecchio: due anni e mezzo! La mia prima mostra è stata proprio sulle pareti del Cafè Lehmitz con le foto attaccate con dei chiodini. Fu una mostra di solo quattro giorni perché c’era sempre qualcuno che staccava una foto e se la portava via.
Nel 1966, quando studiavi alla Scuola di Fotografia di Stoccolma, l’incontro con Christer Strömholm è stato particolarmente significativo, non solo per il suo insegnamento tecnico…
Mi parlava delle sue avventure, mi ha insegnato cosa volesse dire essere un uomo. Per me, che non avevo avuto un padre, perché era andato via quando ero piccolo, Christer Strömholm è stato un padrino. Ne ho avuti anche altri nel tempo, ma lui si è preso cura di me. Ero giovane e dovevo imparare a come comportarmi. Lui mi ha insegnato qualche trucco su come gestire una situazione, ma soprattutto ad essere onesto con le persone che fotografavo: a dare qualcosa indietro. Non solo rubare un volto, ma restituire quel volto stesso. Un fotografo non dovrebbe essere un ladro: è anche Babbo Natale.
Manuela De Leonardis
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