Il maestro di tutti i fotografi. A Torino la mostra dell’ungherese André Kertész
“Tutto quello che abbiamo fatto o abbiamo intenzione di fare Kertész l’ha fatto prima”, diceva Cartier-Bresson. Ecco chi era l’artista ungherese che ha mantenuto le distanze sia dagli esperimenti di Man Ray, che dall’attivismo sociale e politico
Camera – Centro italiano per la Fotografia a Torino, in collaborazione con la Médiathèque du patrimoine et de la photographie (MPP) di Parigi, inaugura la stagione con una grande mostra antologica (con più di centocinquanta immagini) dedicata all’ungherese André Kertész (1894 – 1985), che, viaggiando a Parigi prima e negli Stati Uniti dopo (dove morirà), ha raccolto le esperienze artistiche della fotografia internazionale dell’epoca. Considerato il padre della fotografia contemporanea da Henry Cartier-Bresson e il suo mentore da Brassai, Kertész ha dimostrato che “la vera natura delle cose, l’interiorità, la vita” si può catturare grazie all’osservazione di qualsiasi aspetto del mondo, dal più comune al più straordinario; ogni particolare, benché semplice, merita di essere catturato in fotografia.
La mostra André Kertész. L’opera 1912-1982
La mostra, allestita con giusta cura per i pannelli esplicativi e in generale per l’allestimento – forse il primo allestimento museale “didattico” e programmatico per Kertész – segue le tappe della vita dell’autore: dai primi tentativi amatoriali realizzati durante la Grande Guerra nel suo paese d’origine, con timidi autoritratti e spettri metafisici (si pensi al celebre Nuotatore, concetto impersonato e gettato in un abisso soltanto immaginabile); agli scatti parigini, pregni delle novità surrealiste e dello sperimentalismo fomentati dal fervido clima culturale degli anni Trenta – colpiscono, tra le scene di vita quotidiana delle strade cittadine e le “distorsioni” degli specchi del luna park, le nature morte scattate nello studio di Piet Mondrian, magrittiane e al contempo sentimentalmente vicine a tentativi di poesia visiva –; alle immagini immortalate (alcune inedite prima di oggi) durante gli anni newyorkesi, che da una parte cementano con sicurezza le competenze, le tematiche e le teorizzazioni acquisite in Europa e dall’altra indagano nuove configurazioni, inedite architetture e sconosciute forme di esistenza nella società oltreoceano. Attratto dalle nuove tendenze artistiche provenienti dagli Stati Uniti, decise di accettare l’invito di Erney Prince dall’agenzia Keystone e si trasferì con sua moglie Elisabeth nell’ottobre del 1936. La sua esperienza alla Keystone durò soltanto un anno: le sue fotografie, infatti, non ottennero il plauso nel contesto del giornalismo americano, il quale richiedeva scatti con uno stile più rigoroso e descrittivo; diventò allora un fotografo freelance e collaborò con diverse riviste (tra cui Harper’s Bazaar, Vogue, The American House, e Look) sviluppando un linguaggio poliedrico, ricco di riferimenti alle correnti artistiche novecentesche e con una profondità di sguardo mai riscontrato prima nella storia della fotografia.
André Kertész. Le foto dalla finestra di casa
Perfino durante la malattia continuò a fotografare, grazie all’utilizzo dello zoom, dalla finestra di casa che si affacciava sul Washington Square Park: le immagini di quel periodo, commoventi e tenacemente radicate nella bellezza evocativa e metafisica, furono raccolte nel libro From my Window (1981, dedicato a Elisabeth, scomparsa nel frattempo a causa del cancro). Puntellano le serie esposte ritratti di personaggi che hanno fatto la storia della cultura e del costume del secolo scorso, vere e proprie effigi biografiche dallo straordinario spessore emotivo, dal regista Sergej Ėjzenštejn alla musa Kiki de Montparnasse allo scultore Ossip Zadkine.
Nonostante Kertész abbia ricercato per tutta la sua vita l’ombra di un apprezzamento critico e pubblico, spesso le sue fotografie non hanno ricevuto il giusto riconoscimento: i suoi toni intimi e lirici si distanziavano, in apparenza, dalle tematiche politiche richieste da una certa frenesia documentaristica e da reportage. Solamente durante gli ultimi anni e dopo la morte i continui cambiamenti di stile, tematiche e linguaggio hanno reso le opere di Kertész, dapprima reputate confusionarie e oscure poiché non collocabili in una specifica tendenza estetica, senza tempo proprio per la loro inesauribile versatilità. Anzi: l’artista ungherese ha mantenuto una originalissima visione poetica proprio perché ha mantenuto le distanze sia dagli esperimenti di Man Ray, sia dall’attivismo sociale e politico. Un percorso variegato che lo consacra tra i più importanti fotografi del Novecento – come attestato da Cartier-Bresson: “Tutto quello che abbiamo fatto, o che abbiamo intenzione di fare, Kertész lo ha fatto prima”. Kertész lascia immagini che catturano istanti e emozioni fugaci, foto che rimangono nella memoria, evocando ricordi facilmente condivisibili. Il tutto reinterpretato con una modernità sorprendente che scandaglia e reinventa la realtà. Una peculiare influenza che rende la mostra di Camera imperdibile.
Federica Maria Giallombardo
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