Futuro Antico. Intervista al fotografo Marco Delogu
Curiosità, confronto e passione sono le chiavi per affrontare l’avvenire in modo positivo. Il fotografo e presidente di Palazzo delle Esposizioni racconta come vede il futuro in questa intervista
Marco Delogu è un fotografo, curatore e editore italiano, nato a Roma nel 1960. La sua ricerca si concentra su ritratti di gruppi di persone con esperienze o linguaggi in comune. Dal 2022 è Presidente di PalaExpo di Roma. Ha curato oltre cento mostre di autori come Josef Koudelka, Sally Mann, Graciela Iturbide, Guy Tillim, Alec Soth, Anders Petersen, Don McCullin, Roger Ballen. È inoltre autore di oltre venti libri monografici, editi da Einaudi, e/o, Koenig books, Mondadori, Punctum (casa editrice da lui fondata nel 2003).
Ha esposto in istituzioni italiane e internazionali, tra cui Villa Medici a Roma, il Centre George Pompidou a Parigi, il Warburg Institute a Londra e il PhotoMuseum di Mosca. Le sue fotografie fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private nel mondo.
Intervista a Marco Delogu
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Sicuramente le teste romane. Sono una follia che mi è entrata nella testa da bambino.
Al tempo visitavo i Musei Capitolini e il Foro, che erano ancora gratuiti, e tornando da scuola sull’autobus verso casa facevo un gioco dettato dalla noia in cui cercavo di capire se i volti delle teste che avevo visto al museo potevano essere ritrovati nella gente comune che mi circondava.
Mi è rimasto così tanto impresso nella memoria questo ricordo che il primo lavoro che feci fu fotografare teste romane, con l’obiettivo di cercare di ridare loro una vita. Da quella prima ispirazione nasce l’ossessione per i ritratti e i volti. I ritratti sono la mia ispirazione primaria, dai dipinti del Trecento alla videoarte: compreso andare ossessivamente alla National Portrait Gallery di Londra e soffrire che non ci sia un vero museo del ritratto in Italia. Se devo citare un fotografo sicuramente penso ad August Sander e i ritratti fatti ai cittadini del Novecento, ma tra gli artisti meno noti penso anche a Costantino Nivola, che viene della mia terra, o a Domenico Gnoli, per arrivare ai grandi maestri come Rothko o il Pontormo; quest’ultimo in particolare rientra per me nella categoria dei grandi ritrattisti. Non ho nessuna paura a dire che mi piacciono i classici come Pablo Picasso, ricordo ancora la sensazione avuta durante la visita alla Tate della mostra Picasso 1932 – Love, Fame, Tragedy, in cui mi risuonarono le parole di Goffredo Parise guardando alla Biennale del ’48 i quadri di Chagall: “smetto di dipingere e faccio altro”. Poi da quando Andrea Lissoni mi ha fatto scoprire Joan Jonas non dico che ci penso tutti i giorni ma quasi, quel suo video sul vento mi sembrò qualcosa di veramente incredibile.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Il progetto che mi rappresenta di più è l’ultimo: le fotografie che sto realizzando con la sola luce della luna, senza nessuna attrezzatura né cavalletto, solamente con l’utilizzo della macchina fotografica. Specialmente quelle sull’isola dell’Asinara, dove ho lavorato nel 2017 e intendo ritornare prestissimo.
L’intento è di distruggere una serie di grammatiche della fotografia, le esposizioni sono lunghissime, quasi 30 secondi, e la sfida più grande è accettare che il mio corpo entri dentro la fotografia come strumento fondamentale dello scatto, registrando quando mi muovo o quando non mi muovo. E in particolare lavorare su un posto come l’ex super carcere dell’Asinara, istituzione del massimo controllo, con la perdita del controllo.
Ho smesso quindici anni fa la ricerca ossessiva tematica fatta sui contadini della bonifica Pontina, sui carcerati di Rebibbia, sui cardinali in pensione e a tante altre categorie come i fantini del Palio di Siena, o i compositori dell’Ircam.
In questo momento mi piacerebbe tornare a fare i ritratti e scrivere un libro in cui non faccio vedere lo scatto, se non alla fine come un minimale, ma in cui scrivo cosa è successo facendo il ritratto.
Scrivendo anche di ritratti non andati bene come quello fatto alla fine del pomeriggio passato insieme a Joseph Brodsky. Dopo aver passato 4 ore ad ascoltarlo seduti a Villa Aurelia su una panchina che guardava Roma, ero talmente scarico visivamente che la foto non è venuta bene e oggi mi ricordo di lui attraverso un ritratto stupendo fatto da Irving Penn e non attraverso il mio, e va bene così.
Che importanza ha il genius loci nel tuo lavoro?
Ha un’importanza totale, penso che sia quello che fa la differenza, è ciò che integra la nostra identità con la nostra cultura e la nostra appartenenza.
Nel mio lavoro il genius loci è sempre entrato nel confronto con l’educazione con cui sono cresciuto: i miei genitori erano diventati comunisti nel corso della vita rinunciando alla ricchezza che avevano grazie alle loro famiglie. Sono cresciuto con insegnamenti fantastici ma nel pauperismo, quindi quando mi sono ritrovato a fare foto commerciali per riviste di moda per sopravvivere mi imposi di ridurre il tempo speso lì e di aumentare il tempo della sperimentazione e della ricerca.
Il futuro secondo Marco Delogu
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro?
Quello che mi interessa è il presente, ma ancora di più il futuro. Tutto quello che si può proiettare e costruire nel futuro, viene solamente da un attentissimo studio del passato.
Mi piacciono molto le riscoperte, come la mostra fatta dalla Fondazione Nivola sulla nipote di De Pisis, Bona De Mandiargues, o i disegni riscoperti in un baule di Bobi Bazlen con cui abbiamo fatto una mostra qui al Palazzo delle Esposizioni.
È pieno di gente che mi porta un sacco di progetti che ho già visto in passato centinaia di volte, e il mio consiglio è sempre lo stesso: studia e fai qualcosa che riguarda la tua identità o il tuo genius loci perché è lì che puoi fare la differenza.
Uno dei problemi dell’accademia italiana nella formazione dell’artista è proprio quella di sopravvalutare o sottovalutare il passato: in un caso si crea un immobilismo opprimente e nell’altro non si insegna come rapportarsi al mondo dell’arte nazionale e internazionale, dando vita a schiere di artisti che non sanno come costruirsi un percorso.
Quale consiglio daresti ad un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Avere il massimo della curiosità, studiare tantissimo, e capire come funzionano i meccanismi del sistema in cui si vuole vivere e lavorare. Consiglio di non infossarsi in una sola strada e capire quanto l’identità profonda si possa legare al proprio linguaggio. La mancanza di curiosità è un discrimine nella scelta dei collaboratori. La realtà italiana non è facile e bisogna capire come funziona il sistema, che spesso è di difficile decifrazione. Sono cresciuto in un mondo in cui se dovevi andare a parlare con qualcuno, la prima cosa da fare era studiare e capire cosa aveva fatto quella persona, quale era la sua scuola di provenienza e i suoi punti di riferimento e trovo penoso che ancora adesso cercando collaboratori si presentino persone che non sanno chi sia McCullin o Mikhailov. L’età media del pubblico presente ai talk fatti recentemente con Obrist era poco più bassa della mia e io ho 63 anni. Al talk della Curiger la stanza era piena a metà: parla una donna che ha fondato Parkett, la rivista della Tate, ha curato la Biennale del 2011 e può raccontarti delle cose incredibili e tu decidi di non venire?
In un’epoca definita della post-verità ha ancora senso e forza il concetto di sacro?
Più ti avvicini all’età in cui dovrai fare i conti con la tua dipartita più ti confronti con questo tema. Tutto il mio lavoro sul sacro è stato quello di rilanciare dopo il covid un progetto sul bosco sacro delle Vatican Chapel in cui si esplorava la relazione tra la fotografia e l’immagine sacra con autori importanti come McCullin, Francesca Woodman, Guy Tillim, Graciela Iturbide e Martin Parr. La mostra, fatta alla Fondazione Cini, mi ha permesso di interrogarmi molto su questo concetto che per me non è legato alla religiosità. Certo mi piacerebbe che la contemporaneità potesse avere un rapporto con il Vaticano, soprattutto in una città come Roma. Io abito nella stessa casa in cui Manzù fece i portoni per San Pietro ma forse quella è una delle poche cose che fecero nel secondo dopoguerra con l’arte contemporanea. Penso al Novecento come al secolo più buio di questo rapporto.
Come immagini il futuro? sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Questa è la domanda più difficile a cui rispondere anche perché ho un figlio di 7 anni e nei doveri della paternità c’è anche quella di dare indicazioni su come affrontare la vita.
Quello che dico a mio figlio è sicuramente di studiare, ma forse, prima di questo, provare ad essere felice trovando una sua passione, qualunque essa sia.
Per la prima volta ammetto di essere un po’ pessimista, poi mi rimbocco le maniche e torna l’ottimismo della volontà. Penso che il periodo in cui viviamo sia molto difficile, gli ultimi sviluppi della guerra in Ucraina, il rilancio del nucleare e il dramma del conflitto israelo-palestinese mi fanno pensare in modo un po’ buio. Feci un lavoro sul sogno europeo (sul carcere di Santo Stefano e l’isola di Ventotene) e a malincuore oggi quell’idea la vedo tramontare. In un anno e mezzo di Palazzo delle Esposizioni ho avuto una grande lezione: invitai Dacia Maraini per la mostra di Pasolini e facemmo una riunione aperta. La riunione fu molto bella e nel suo intervento conclusivo Dacia ci tenne a raccontarci come nella Roma che lei aveva vissuto negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si poteva passare tutta la notte a parlare con amici di letteratura e arte, mentre adesso al termine di questa riunione, nessuno aveva ancora proposto di mangiare qualcosa insieme, di continuare a parlare. L’epoca che visse lei era diversa e produsse molte cose importanti, forse in quest’epoca ci farebbe bene recuperare alcune di quelle abitudini. Curiosità, confronto, approfondimento e moltissima passione credo che siano le uniche chiavi che ci potranno condurre positivamente nel futuro.
Marco Bassan
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