Il classico in fotografia. La mostra di Mapplethorpe e von Glöden a Firenze
Al Museo Novecento, due diverse generazioni di fotografi si incontrano sui temi della classicità, della plasticità e della bellezza del corpo nudo. Abbiamo intervistato il curatore Sergio Risaliti
Potrebbe forse essere l’amore per la classicità e per la plasticità quello che accomuna due straordinarie personalità del mondo della fotografia, il nobile Wilhelm von Glöden e Robert Mapplethorpe. Novanta gli anni che li separano: il primo nasce nel nord della Germania nel 1856, l’altro a New York nel 1946. Eppure i due lavori hanno molto in comune, entrambi interessati al nudo come espressione di bellezza del corpo, in particolare maschile, entrambi raffinati cultori della grecità e dell’arte italiana del Rinascimento.
Il Museo Novecento di Firenze ospita una loro mostra, dal titolo Beauty and Desire, curata da Sergio Risaliti con Eva Francioli e Muriel Prandato, organizzata con la collaborazione della Robert Mapplethorpe Foundation e della Fondazione Alinari per la fotografia. La rassegna sottolinea la volontà di mettere in risalto il legame tra l’arte contemporanea e l’arte antica, in una città in cui ogni cosa deve fare i conti con un passato straordinario, e in cui, tuttavia, l’arte contemporanea ha avuto e continua ad avere un ruolo di primo piano. In mostra sono circa cinquanta fotografie di Mapplethorpe, suddivise per sezioni tematiche, grazie alle quali è possibile mettere a fuoco il rapporto tra il fotografo e l’arte antica. Abbiamo chiesto al curatore Sergio Risaliti di parlarci della mostra.
Il tema del classico potrebbe essere definito il punto di unione fra Mapplethorpe e Von Glöden?
Classico certo, ma anche anticlassico. C’è una vicinanza profonda con Michelangelo. Qui cogliamo la corporeità, la fisicità, l’energia che traluce in forma di bellezza, di grazia, di venustà tra un corpo e l’altro. La fotografia di Mapplethorpe è unica, straniante, provocatoria.
Vi è un’eccedenza rivoluzionaria, eretica. Sono corpi che trasudano bellezza, energia perlopiù di ragazzi neri. I protagonisti di Von Glöden, invece, erano ragazzini efebici.
In entrambi vi è uno spregiudicato erotismo-eretismo rispetto ai canoni classici che hanno dominato nella cultura occidentale dal Rinascimento in poi. Entrambi sono antiaccademici. Così come è antifilologica la costruzione della mostra. Non c’è consequenzialità paratattica. C’è, piuttosto, un filo di coscienza di certi archetipi scultorei e pittorici, interiorizzati da Mapplethorpe. Emerge in entrambi un’evidente suggestione rispetto alla loro educazione religiosa cristiana, che è anche un’educazione iconografica. Parecchie delle loro immagini derivano dalla storia dell’arte europea religiosa. Emergono archetipi, che Aby Warburg avrebbe chiamato Pathosformeln.
Nei diversi autoritratti dei due artisti, presenti all’inizio della mostra, vi sono delle pose emblematiche.
Mapplethorpe si autoritrae come Lucifero/Dioniso, l’angelo ribelle e il dio della metamorfosi, della tragedia. L’altro si autorappresenta ricalcando l’autoritratto cristico di Dürer o in altri casi come un profeta. Era un tedesco. Le sue opere ci riportano anche alle scene bucoliche di Lawrence Alma Tadema e di quei pittori inglesi che già si spostavano dal Romanticismo al Decadentismo e al Simbolismo.
Quale il ruolo in mostra delle fotografie di scultura dei fratelli Alinari?
Fanno da trait d’union fra i due. Von Glöden ha in sé una componente pittorica ma anche letteraria e poetica. È stato quello un momento culturale in cui si percepiva una fortissima suggestione verso il sud, la Magna Grecia. Stiamo parlando della rinascita del mito di Pan. Nel 1872 Nietzsche aveva scritto La nascita della tragedia, il dibattito tra apollineo e dionisiaco era alla moda.
Sono passati quarant’anni dalla prima mostra di Mapplethorpe a Firenze, a Palazzo Antonelli Augusti Castracane dalle 100 finestre.
Quella mostra è stata un vero shock, finivano gli anni di piombo in cui era avvenuta una cancellazione totale della fisicità, della corporeità, della bellezza del corpo maschile e femminile. Stava esplodendo l’AIDS con tutte le sue paure. In quel momento lui si permette di farci conoscere la corporeità quasi esuberante ma luminosissima, la venustà di corpi maschili e femminili non solo di neri ma di gay, bodybuilder, danzatori. Anche nell’attuale mostra emerge questo rapporto molto cosciente, che ha a che fare con il mondo della danza e del body building.
Mi pare che tutto questo sia più che mai contemporaneo, in un momento come il nostro di forte puritanesimo, che censura perfino il David. In Mapplethorpe e von Glöden non c’è mai caduta in un basso materialismo, tanto meno nel perverso e nella pornografia. Resiste qualcosa di luminoso e di misterioso.
Angela Madesani
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