Oltre il visibile. La mostra (fotografica?) di Irene Fenara a Milano
Tra grandi video proiezioni, pozzi di luce e schermi scultorei, l’artista riflette sulla funzione documentaria della fotografia e in particolare delle telecamere di sorveglianza
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Al limite del visibile, luci e riflessi di paesaggi (forse di altri universi?) più che immaginati, concepiti dall’intelligenza (sensibile?) degli algoritmi delle telecamere di sorveglianza e rielaborati dallo sguardo silenzioso (e distratto?) di Irene Fenara (Bologna, 1990) che ne restituisce forme e prospettive meravigliosamente atemporali. Sono tutte di nuova produzione le opere presentate negli spazi di galleria ZERO… a Milano (zona Corvetto) in occasione della mostra personale Grandi lucenti – fino al 30 marzo 2024 –, il cui stesso titolo suggerisce quanto la luce (e il buio in sua assenza) accompagni la genesi (ma anche la fruizione) delle opere esposte. La prima suggestione, infatti, è come questa interviene sulle immagini presentate (non collocabili geograficamente e il cui soggetto, spesso, non è identificabile), a seconda dell’ora e della stagione: grandi video proiezioni – Supervision, (Storm) –, pozzi di luce, schermi scultorei – Supervision (Aerial leaves) – e stampe fotografiche – Supervision, sia su carta da lucido sia su carta baritata –, sono parte stessa del passaggio temporale, mutando dimensione e colore (nonostante si manifesti tutto tra il bianco e il nero) a seconda degli elementi (naturali) che si “intromettono” nell’osservazione.
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Irene Fenara e la riflessione sulla funzione documentaria della fotografia
La riflessione di Fenara si basa sulla presunta funzione documentaria della fotografia, applicabile anche ai sistemi di sorveglianza, che dovrebbero attenersi quanto più possibile a una realtà effettuale ma che, invece, rielaborano a loro modo le informazioni visive registrate. Quanto di poetico, dunque, emerge da queste immagini in bassa risoluzione e con evidenti alterazioni cromatiche? E quanto il processo artificiale le modifica? L’artista ne propone una sintesi, limitandosi a catturare l’incidenza, intrufolandosi nei sistemi delle telecamere di sorveglianza, quando può, dove può e come può. Nessun testo accompagna l’esposizione. Non è necessario spiegare, il processo non vuole essere rivelato, i luoghi in tempesta non hanno bisogno di essere geolocalizzati, le luci (presumibilmente) elettriche non importa a quale città in lontananza appartengono. Ogni effetto, riflesso e distorsione diventa essenza stessa dell’immagine, natura stessa dell’opera.
Caterina Angelucci
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