L’autoritratto per superare il trauma. Intervista alla fotografa Cristina Nuñez
Uno scatto per fare i conti con il proprio vissuto, per trasformare le emozioni in immagini, per scardinare i tabù, per convertire il dolore in arte. Parla Cristina Nuñez, artista e ideatrice di The Self Portrait Experience
“Questo riguarda anche te”, è il motto silenzioso che accompagna la contemplazione delle opere di Cristina Nuñez. È la potenza dell’autoritratto, la forma artistica che, più di ogni altra, crea coesione e condivisione fondandosi sulla scomposizione dell’essenza dell’autore stesso, contemporaneamente creatore e spettatore di una parte di sé.
L’autoritratto come forma di autoterapia
Non solo autocelebrazione. L’autoritratto si trasforma oggi in un potente strumento auto-terapeutico, in grado di oggettificare le emozioni più disparate e dolorose per decifrarle, comprenderle e, infine, accoglierle in una più consapevole e ampia percezione di sé. Proprio da questi principi è partita Cristina Nuñez (Figueres, 1962), l’artista e fotografa che nel 1988, dopo il superamento di un’adolescenza segnata dalla tossicodipendenza, ha avviato un progetto di terapia self-made attraverso la realizzazione di autoritratti finalizzati a esorcizzare i traumi del passato e a trovare senso nello stigma che portava con sé dalla gioventù. Nel 2004 Cristina ha convertito l’auto-terapia in una missione aperta al mondo intero ideando The Self-Portrait Experience (SPEX), il metodo artistico-terapeutico basato sulla realizzazione di autoritratti che ha come obiettivo alla comprensione di sé e all’affermazione delle proprie potenzialità attraverso l’esplorazione dell’inconscio. Da vent’anni Cristina organizza workshop in carceri, centri di salute mentale, centri di riabilitazione, accademie d’arte, scuole e musei, per facilitare l’avvio di un processo di autocoscienza individuale e collettivo che permette di affermare la propria esistenza al di fuori del dolore o insieme al dolore stesso.
L’autoscatto secondo Cristina Nuñez
Una tecnica che trova le sue origini in tempi non sospetti: con l’autoscatto, come spiega Cristina Nuñez citando Lacan, si ripropone una dinamica che ha origine durante l’infanzia, quando il bambino inizia a riconoscere la propria immagine davanti allo specchio. In questo momento si avvia un processo di rielaborazione del modo di concepire se stessi come individui, che implica uno sforzo di comprensione profonda e di indagine all’interno della propria essenza. Durante la creazione di un autoritratto l’unicità dell’io viene meno, perché si diventa allo stesso tempo creatori, soggetti, spettatori dell’opera: l’incontro fra queste tre anime scatena il processo creativo.
L’intervista a Cristina Nuñez
Hai superato un passato da tossicodipendente. Qual è stato, se c’è stato, l’elemento scatenante che ti ha dato la forza per reagire?
Senz’altro il fatto che mio padre mi abbia dato un ultimatum. Mi prostituivo e lui mi aveva scoperta insieme a un cliente: se avessi proseguito con quello stile di vita non mi avrebbe più voluto vedere. Mi sono resa conto solo diciassette anni dopo che questo suo ultimatum mi aveva salvato la vita. In secondo luogo, devo ammettere che ho anche sofferto molto del modo in cui venivo guardata dall’alto in basso in famiglia, ma io ero convinta che ci fosse qualcosa di buono in me, che avevo la possibilità di fare qualcosa di importante e di utile per il mondo.
Come influisce la digitalizzazione e la cultura dell’online sui giovani di oggi? La diffusione dei social è totalmente negativa?
I social hanno democratizzato le notizie e la comunicazione, la diffusione di informazioni e di emozioni. E questo è un bene. I social sono anche lo spazio del “selfie”, che in qualche misura è un’affermazione della propria esistenza, con cui si dice “io ci sono, qui e ora”. Siamo nel periodo storico della realizzazione personale e del culto del successo, che ha portato molti giovani a contemplare l’idea di poter arrivare a fare ciò che desiderano. I rischi? La crisi identitaria. Chi non ha una buona consapevolezza nell’utilizzo delle reti sociali rischia di confondere sé stesso con la propria immagine pubblica, che si basa su specifici pilastri sociali: forza, bellezza, felicità. Non c’è spazio per esprimere tutte emozioni “negative” che non rientrano all’interno di questo spettro e che, quindi, vengono represse dentro di sé. Ma la nostra identità è un iceberg, sott’acqua c’è l’inconscio personale e collettivo dove “possiamo essere tutto”, nel bene e nel male.
Hai portato avanti progetti in diverse zone del mondo e per molti tipi di utenze differenti. Dove hai percepito maggior entusiasmo?
Il carcere è un luogo in cui io amo lavorare. Lo stigma molto forte a cui sono sottoposti i detenuti non viene solo dall’esterno, ma spesso è anche autoimposto: la maggior parte dei carcerati non riescono a vedere il loro potenziale. Quando racconto la mia storia di ladra, prostituta, trafficante e tossicodipendente cerco di fornire loro una chiave di lettura per cambiare la propria vita. Io li guardo come esseri umani, proprio come guardo me stessa, e loro sono grati per questo “sguardo” privo di giudizio. Ho anche una missione educativa con gli adolescenti, per i quali sto portando avanti un progetto con il Ministero dell’Educazione del Lussemburgo. D’altronde, i giovani sono il futuro.
Come percepisci l’approccio italiano all’arte e alla fotografia legate alla cura della mente? Apertura o rifiuto?
Il mio lavoro nasce in Italia e non è un caso. Ho inconsciamente ricevuto influenze da parte del Rinascimento, che emerge nitido nelle mie opere. Devo dire che la storia dell’arte italiana, la più “forte” del mondo, crea qui le basi per una grande apertura verso la creatività e rende l’Italia un luogo di fioritura. I problemi, però, sono altri, come il mancato aiuto da parte delle istituzioni per gli artisti. Invece, per quanto riguarda la fotografia terapeutica e la fototerapia, l’Italia è uno dei paesi dove esiste un interesse più marcato, e una molteplicità di formazioni specifiche. Per il mio metodo SPEX è stato ed è tuttora un luogo molto fertile.
A quale artista, contemporaneo o del passato, ti senti più vicina?
Il Caravaggio, senza dubbio. Ma anche altri artisti di tempi e luoghi diversi: Rembrandt, Goya, Lucian Freud, Cindy Sherman.
Quanto contano la religione e la spiritualità nella tua produzione artistica?
Tantissimo. Io sono battezzata cristiana, ma ho radici ebraiche e musulmane. Penso di aver elaborato la “mia” religione, incentrata sull’essere utile agli altri, sull’essere artivista. La mia missione è facilitare l’incontro con l’inconscio, che permette l’attivazione del processo creativo. Punto a creare una connessione profonda con le persone e tra di loro, attingendo dall’inconscio collettivo, mettendo in connessione le vulnerabilità per riconoscere la perfezione dell’essere umano nella sua stessa imperfezione, senza alcun giudizio: questo per me è spiritualità. Proprio il carcere, ad esempio, è il luogo più spirituale che esista, perché lì tutto gira intorno al processo di conoscenza che deriva dall’aver fatto del male e “pagare” il conto.
Ti hanno mai accusata di dare voce e spazio a comportamenti “ribelli”?
Non è mai successo. Se dovesse succedere risponderei che, alla fine, io uso la fotografia come strumento per esprimere emozioni difficili proprio con l’obiettivo di non fare male a nessuno, per creare un rapporto fruttuoso con l’esterno, basato sulla maggiore consapevolezza della rabbia e del dolore. Io stessa, oggi, sono diventata più flessibile e accomodante. Questo accade perché le emozioni sono nelle mie foto e nelle mie opere.
E, invece, quale critica che ti è stata avanzata?
Mi è stato detto che mi concentro solo sugli aspetti “negativi”. Questo è il frutto del famoso “pensiero positivo” che tanto ci ha danneggiati. Io mi concentro sulle emozioni difficili e dolorose proprio perché si tende a reprimerle, ma se sono lì c’è un motivo. Reprimendole ci ammaliamo e, di conseguenza, aumentiamo i nostri problemi. Definirei quindi il mio approccio radicalmente positivo, perché guida le persone nella ricerca dei propri bisogni.
Scrittura autobiografica e autoritratto sono simili in termini di utilità terapeutica?
Sì, anche se la fotografia ha la capacità di accedere all’inconscio, come dicevano anche Freud e Walter Benjamin, mentre con la scrittura è difficile che emerga qualcosa a nostra insaputa. Ma le parole sono importanti e con esse si può elaborare e ri-elaborare. Mi è capitato di mixare le due forme artistiche, mettendo insieme foto e testi autobiografici, e ho notato che si sposano perfettamente. Dal punto di vista del processo tendo a partire dalla fotografia, dalla quale esce materiale dall’inconscio, per poi innescare una riflessione attraverso la parola e la scrittura.
Esiste una tecnica per la produzione degli autoritratti? Dove si trova l’elemento che rende un’immagine “meritevole” di essere esposta?
Il dispositivo che ho creato, SPEX, consiste nella creazione di un progetto autobiografico attraverso una serie di esercizi suddivisi in tre parti: Io, Io e l’altro, Io e il mondo. I criteri di percezione e scelta delle immagini sono vari, ma ti riassumo la mia concezione di opera in quale punto. Si tratta di un’immagine che contiene una molteplicità di elementi e di messaggi, che parla dell’umanità, che ha uno stretto rapporto con il tempo e, infine, che presenta un’armonia di elementi formali ed estetici. C’è infine il concetto dell’”io superiore”: l’immagine dovrebbe poter rappresentare un archetipo di essere umano, in cui tutti possano riconoscersi. Questa, secondo me, è un’opera che merita di essere appesa a un muro.
Sara Scagliarini
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