Una vita tra femminismo e politica. E la fotografia? Arrivata per caso. Intervista a Paola Agosti 

Prima fotografa oggi curatrice. Paola Agosti, che ha fatto della fotografia uno strumento di traduzione della realtà, oggi si esprime con altri mezzi, sempre attenta a cogliere le dinamiche che, tra passato e presente, muovono la società…

 “Se il libro fosse stato solo sul femminismo, sarebbe stato inevitabilmente solo sul femminismo romano perché in quegli anni vivevo a Roma”, spiega Paola Agosti (Torino 1947, vive tra Torino e Roma) parlando dell’ultima pubblicazione che la vede protagonista, Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, collana Frontiere, 2024), realizzata insieme alla storica Benedetta Tobagi. Una straordinaria raccolta di fotografie in bianco e nero che raccontano un plurale femminile in diverse zone del Belpaese. Per la stessa casa editrice, nel 1992, Agosti aveva pubblicato Mi pare un secolo, fotografando con Giovanna Borgese i grandi personaggi della cultura europea del XX Secolo. Le sue fotografie fanno parte di collezioni museali internazionali tra cui Musée de l’Elysèe di Losanna, Museo de Bellas Artes di Buenos Aires, Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, Yale University di New Haven (USA), Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, MAST-Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna. Nel 2023 è uscito con Postcart (collana Incontri) il volume che ripercorre la sua vita professionale Paola Agosti. Il lungo viaggio di una fotografa, curato da Federico Montaldo con prefazione di Liliana Lanzardo e postfazione di Matteo Di Castro.  

Lo studio di Paola Agosti a Roma (ph Manuela De Leonardis)
Lo studio di Paola Agosti a Roma. Photo Manuela De Leonardis

Intervista a Paola Agosti 

Partiamo dall’importanza dell’archivio: il tuo contiene 360mila scatti in bianco e nero e 40mila diapositive a colori realizzati nell’arco di quarant’anni. C’è un capitolo del libro pubblicato da Postcart che s’intitola proprio “L’archivio come “pensione dei fotografi”… 
L’archivio è fondamentale, come è stato l’averlo tenuto in ordine. Di questo sono molto grata a Franca De Bartolomeis che ha lavorato per tanti anni come photo editor a L’Espresso, continuando a collaborare per qualche tempo con Contrasto. Quando da Milano arrivò a Roma, diventammo subito molto amiche. All’epoca, poi, lei stava con Mario Orfini un fotografo che frequentavo e con cui feci il mio primo reportage in Sardegna. Fu lei a dirmi come si archiviano le foto, seguire quel sistema è stato importantissimo. 

Ora il tuo archivio fotografico è a Torino… 
Sono tornata a stare a Torino nel 2002, praticamente dalla mattina alla sera, quando mia mamma ebbe un ictus. Papà era già morto da tempo. Ero lì di passaggio, sembrava una questione di pochi giorni, addirittura di poche ore, invece lei è sopravvissuta per altri due anni e mezzo. Nel frattempo mi aveva raggiunto il mio compagno Zoltan Nagy, anche lui fotografo. Mi feci portare l’archivio a Torino nel 2005, una settimana prima che la mia mamma mancasse. Alla fine è stata una buona scelta di cui non mi sono pentita. 

Prima era in questa casa. Tra l’altro l’indirizzo di Via delle Mantellate 17 compare anche sui timbri della sede romana dell’agenzia fotogiornalistica DFP-Documents For Press, fondata a Milano all’inizio degli anni Settanta dal fotografo Aldo Bonasia e dalla sua compagna Daniela Turriccia… 
Sono venuta a stare in questa casa nel ’68, all’inizio in affitto. Sì, proprio in questa stanza c’era la sede della DFP. Prima ancora avevo iniziato a lavorare qui con Augusta Conchiglia, la mia amica fotografa milanese che mi ha iniziata alla fotografia e che allora abitava qui sopra. Successivamente questo appartamento è stato messo in vendita per una cifra ridicola, perché all’epoca le case a Trastevere te le tiravano dietro e mio padre me la comprò. Dopo tanti anni ho acquistato anche l’appartamento accanto che è diventato lo studio e, finché è stato a Roma, la sede dell’archivio. Con Tano D’Amico, Sandro Becchetti, Fausto Giaccone, Tatiano Maiore eravamo i corrispondenti romani della DFP. Poi ci spostammo in vicolo del Bologna, sempre a Trastevere, in un postaccio terrificante che chiamavamo «il grottino» per quanto era umido. Un’esperienza che purtroppo non è durata a lungo.  

Qual era il clima in quegli anni? 
Pensare di poter cambiare il mondo anche con la fotografia, e poi essere molto partecipi di quello che succedeva. Tutti, tranne la sottoscritta, erano legati alla sinistra extraparlamentare. Io, purtroppo, ero comunista… e mi dovevo vergognare. (ride

Nel libro, infatti, c’è la foto del biglietto del ’76 di Enrico Berlinguer in cui ti ringrazia delle foto che gli avevi fatto a Berlino scrivendo «cara compagna»… 
Sì. Ero comunista. Allora c’era un grande settarismo che ho sentito, patito e trovato ingiusto. Adesso tutti fanno finta di niente, ma allora erano tremendi. Avevano loro la verità in tasca. Tu eri un revisionista, dovevi stare zito e buono. Ricordo che una volta che volevo entrare a La Sapienza, dove forse era in corso un’assemblea e c’era il servizio d’ordine di Lotta Continua che non faceva entrare nessuno – allora c’era anche una grande chiusura rispetto a fotografi e giornalisti – chiesi a Tano se mi faceva entrare e lui rispose, perché non lo chiedi ai tuoi scagnozzi del PCI? Era questo il clima.  

Paola Agosti, Cuba 1995 (courtesy the Artist e Archivio Acta International)
Paola Agosti, Cuba 1995 (courtesy the Artist e Archivio Acta International)

Paola Agosti e la fotografia scoperta per caso 

Un passo indietro alla casualità del tuo incontro con la macchina fotografica… 
Alla fotografia, in realtà, non ero così interessata. Avevo fatto il liceo artistico e poi mi iscrissi all’Accademia perché avevo una grande passione per la grafica che un po’ mi è rimasta. Ad un certo punto approdai a Roma e mi feci assumere – diciamo così – come apprendista nello studio chiamato I Fantastici quattro: Giovanni Lussu, Mario Cresci, Luigi Ricci e Mojmir Jezek. Non sapendo bene cosa farmi fare, loro mi misero a lavorare in camera oscura e quando arrivò Augusta Conchiglia che era reduce da un lungo viaggio in Angola, dove aveva documentato i guerriglieri del MPLA (Movimento Popular de Libertação de Angola), simpatizzammo subito diventando amiche. Come dicevo prima, fu lei a trovarmi questa casa. A Milano faceva le foto al Piccolo Teatro, perciò mi propose di unire le nostre forze e provare a lavorare insieme con i teatri romani. Le dissi di sì, ma in che modo? Ci volevano dei soldi per creare un minimo di struttura, una camera oscura. Lei mi disse di chiederli a mio padre. Lui, che era un grandissimo uomo anche dal punto di vista educativo, mi disse che andava bene. Visto che aveva mantenuto mio fratello durante gli studi universitari che io non avevo fatto, mi avrebbe aiutato. E così è stato. Con Augusta abbiamo iniziato cercandoci delle commissioni al Teatro Sistina. Però anche questa collaborazione è durata molto poco, perché Augusta era troppo amante dell’Africa e dopo esser diventata giornalista si è trasferita a Parigi. Siamo sempre rimaste in ottimi rapporti, ma lei ha preso un’altra strada. Così io mi sono ritrovata fotografa professionista dalla mattina alla sera, senza aver avuto alcun passaggio nemmeno attraverso l’amatorialità. Erano quegli anni stessi che, in un certo senso, ci autorizzavano a fare quello che facevamo. 

Paola Agosti e la politica 

Da fotografa professionista quali sono stati i tuoi primi soggetti? 
A parte un breve passaggio legato a pochissime foto di teatro, televisione e book per i vari attori, ho capito quasi da subito che si poteva guadagnare più facilmente, ed era anche più divertente, fotografando i politici.  

Tantissimi tuoi ritratti di politici, infatti, sono stati pubblicati sulle copertine di Panorama, L’Espresso, Il Mondo 
Sì su questo argomento ho lavorato tanto perché mi ha permesso di potermi mantenere, benché sempre sul filo. Seguivo l’attualità politica a Roma, i vari congressi, comitati centrali, consigli nazionali e anche gli incontri del mondo della finanza e dell’economia, con qualche scappata in Vaticano. È stata una buona scuola perché lì mi sono confrontata per strada con tutti quei maschiacci!  

Per un certo periodo hai viaggiato molto in Cile, Argentina e in altri paesi con il giornalista Saverio Tutino… 
C’eravamo conosciuti a Cuba dove lui era corrispondente per l’Unità. Ero andata a cercarlo perché era amico della famiglia di mia madre, ma avevamo scambiato solo due parole. Lo rincontrai credo un anno dopo a Roma. Mi disse di essere uscito dal partito, non lavorava più all’università ed era diventato freelance. Mi propose di provare a fare qualcosa insieme, lui scriveva e io fotografavo. Siamo stati anche in Somalia, Mozambico e, quando in Portogallo è scoppiata la Rivoluzione dei Garofani, siamo partiti per Lisbona. Saverio è stata una figura molto importante nella mia formazione, abbiamo avuto anche una storia sentimentale significativa, anche se lui era parecchio più grande di me. Al di là della storia che è nata tra noi, lo guardavo con ammirazione e soggezione.  

Nella tua formazione qual è stato l’insegnamento dei tuoi genitori: il tuo papà Giorgio, antifascista e protagonista della Resistenza, e la mamma Nini Castellani che come traduttrice aveva tradotto anche Il Mago di Oz 
È stata proprio la mamma a scoprire e lanciare in Italia Il Mago di Oz. Lei era milanese e da giovanissima era stata assunta dalla casa editrice Mondadori quando era presente ancora il vecchio Arnoldo. Mi raccontava di aver trovato quel libro su una bancarella, le era sembrato interessante e lo tradusse, credo quando era già andata a stare a Torino dopo essersi sposata con mio padre. Anche la mia nonna paterna era traduttrice dal polacco e dal francese. Era una famiglia di antifascisti che cospiravano e traducevano per campare. Mio padre stesso che era magistrato, subito dopo la liberazione era stato nominato dal CLN questore della Torino liberata, la sera tornava a casa in biciletta e si metteva a tradurre per arrotondare il bilancio famigliare. Anche il fratello di mia mamma è stato un insigne germanista e la sorella, come lei, traduceva. Mio fratello Aldo che è storico e ha insegnato storia contemporanea all’università di Torino ha tradotto molti libri. In fondo anch’io faccio un lavoro che non è poi così diverso, come dice Gisèle Freund il fotografo è come il traduttore.  

Fino agli anni duemila hai fotografato in analogico, poi sei passata al digitale? 
Da quando sono tornata a stare a Torino ho smesso di fotografare e mi sono dedicata al lavoro di curatela di mostre con un taglio storico. Ho curato quella su mio padre, su Norberto Bobbio e il suo mondo, su Nuto Revelli e sulla storia della famiglia Bianco con i fratelli e le mogli che dopo l’8 settembre 1943 diventarono protagonisti della resistenza cuneese. Sono una fotografa esaurita, come ho scritto da qualche parte. Quello che mi aveva profondamente annoiato e scocciato era il fatto che, come freelance, ci fosse sempre una trattativa per essere pagata, i solleciti… Questo aspetto era veramente umiliante anche perché erano tanti anni che facevo questo lavoro. Semplicemente non ho più avuto voglia di fare foto e continuo a non averla. Le uniche “persone” che fotografo sono due gatti di amici, Nuvola e Neve, che vivono in campagna. Ho avuto cani per tutta la vita, amando immensamente gli animali forse anche molto più della fotografia. Se rinascessi vorrei tanto fare l’etologa. Eh sì per la fotografia potrei dire “ogni passione spenta”, citando Vita Sackville-West.   

Manuela De Leonardis 

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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