La notte splende per tutti. Intervista a Luis Gomez De Teran
Da Caracas a Roma, passando per diverse città europee e spingendosi fino in India, Luis Gomez de Teran ha firmato alcuni dei più bei muri realizzati negli ultimi anni dagli street artist di tutto il mondo. Attualmente, però, si dedica alla pittura.
Luis Gomez de Teran, al secolo aka Gomez (Caracas, 1980; vive a Roma), è nella Capitale con la sua prima personale, allestita presso la Galleria Varsi. Fulcro delle sue ricerche artistiche è l’uomo, la cui eccezionale natura viene percepita di notte, momento chiave per la reinterpretazione dei fenomeni. Qui si racconta, tra passato e futuro.
Chi è Luis Gomez de Teran? Qual è il suo retroterra culturale?
Non credo ci sia cosa più difficile da chiedere a una persona poco abituata alle interviste che descrivere se stessa senza sembrare artefatta, soprattutto sapendo che con buona probabilità un sacco di gente leggerà le risposte.
Oggi mi chiedi chi sono perché dipingo, questo fa di me un pittore e cerco di esserlo nel modo migliore possibile, lo faccio in strada e lo faccio in studio, ma la pittura è l’ultima fase di un percorso alla ricerca della tregua tra una persona tranquilla e il suo gemello che la spinge da sempre verso scelte discutibili. Oggi dipingo, come facevo tanti anni fa, ma nel frattempo sono e sono stato tante altre cose, sono un equilibrista, che ama i pagliacci di cui tutti ridono, gli uomini forzuti, i prestigiatori buoni e le donne barbute, in fondo loro sono il mio retroterra culturale.
Sei principalmente autodidatta. Perché? Pensi che oggi le scuole d’arte siano in crisi o semplicemente preferisci non avere strutture?
Penso che in crisi sia tutto il sistema scolastico, perché mal strutturato. Non per deresponsabilizzarmi delle mie scelte, ma credo che finite le scuole medie, a 13 anni o giù di lì, siano pochi i ragazzini che sappiano cosa vogliono dalla vita o che abbiano già scoperto la naturale predisposizione che c’è un po’ in tutti.
Io ho fatto cinque anni di liceo scientifico in cui non ho imparato niente e che all’epoca mi hanno lasciato solo una gran voglia di allontanarmi dagli studi, in più, dal punto di vista economico, vedevo l’accademia inarrivabile.
Ripensandoci con il senno di oggi non so se rifarei le stesse scelte, ma sono contento delle strade che ho percorso per strutturarmi e che mi hanno strutturato, eccome. Ho frequentato posti che non erano scuole e persone che non erano professori, sono grato per quello che mi hanno insegnato e sono estremamente soddisfatto per aver scoperto questo talento che fino a poco tempo fa nessuno, neanche io, era mai riuscito a intravedere e che non sembra garantito si apprenda tra i banchi.
Cosa ti stimola creativamente e qual è il metodo della tua ricerca?
Potrei rispondere con una lista di banalità e preferisco evitare a me la fatica di cercare di scriverle in maniera decorosa e ai lettori di leggerle. È tutto un processo estemporaneo che ancora non so controllare a fondo, ispirato dal casino di mondo in cui siamo capitati e, come questo, felicemente casuale.
La tua vocazione artistica si è manifestata inizialmente attraverso il linguaggio dei graffiti. Come racconteresti questo esordio?
Per l’età che avevo in quegli anni i graffiti sono stati il linguaggio più spontaneo che abbia mai utilizzato. Uscivo la sera con altri ragazzini che come me non trovavano nella politica o nelle feste il rimedio alla noia, mia nemica di vecchia data, e nei luoghi in cui ci si ritrova facendo graffiti la noia non ci arriva, la tengono lontana le luci di posti che la maggioranza delle persone non vedrà mai, l’odore dei binari misto alla vernice, i rumori inaspettati, l’atmosfera da avventura e il senso di libertà nel credere di stare investendo il tempo meglio di come facevano i miei coetanei. Mi faceva semplicemente stare bene e se allora non avessi iniziato con i graffiti non riesco proprio a immaginare cosa starei facendo oggi, le amicizie strette in quel tempo hanno retto quasi venti anni di intemperie e occasionalmente, quando gli impegni e il fisico ce lo consentono, cerchiamo di ritornare a quei giorni semplici, ma quell’innocenza io l’ho persa da tempo.
Se mai dovessi avere un figlio o una figlia sarei contento che imparasse a conoscere sé stesso o sé stessa con uno spray in mano.
Hai realizzato interventi murali in diverse città. In che modo la specificità di ciascun luogo ha influenzato i tuoi lavori?
A Tonara un poeta ribelle ha preferito morire di stenti e abbandonare la sua terra che essere servo dello Stato, a Corato un parlamentare morto ammazzato perché non aveva voluto piegarsi alla prepotenza. Quando sono andato a Berlino avevo già pensato di reinterpretare la storia di Orfeo ed Euridice per poi scoprire che casualmente il mio amico Damian, che è un musicista immenso e che mi aveva chiamato per dipingere lì, in quel periodo stava componendo la colonna sonora per l’opera sullo stesso mito.
Ci sono empatie e casualità, non seguo uno schema per decidere cosa dipingere, ogni città ha i suoi racconti e i suoi personaggi e quando è il momento si rivelano.
I commenti che accompagnano alcuni dei tuoi interventi murali sono piuttosto intriganti. Che tipo di rapporto intrecciano e sviluppano con le immagini?
Non so cosa intendi per commenti, mi è capitato spesso di affiancare delle parole alle mie immagini, ma solo perché nel mio percorso ho avuto la fortuna di inciampare in grandi scrittori e poeti, tutte persone per cui nutro una certa invidia e con cui mi piace collaborare.
Nella maggior parte dei casi sono loro che interpretano i miei lavori e compongono, l’interazione più interessante è stata al festival di poesia di strada del Trullo a Roma, dove Maurizio Mequio, che è un grande uomo, un grande scrittore e un grande amico, ha scritto una poesia stupenda ispirata in parte alle mie idee e alla mia pittura e su questa io ho abbastanza indegnamente sviluppato l’immagine del viandante solitario che scrive rivolto alla propria ombra.
L’unica volta in cui ho scritto di mio pugno è stato per il lavoro all’ex manicomio del Santa Maria della Pietà, dove ho conosciuto questo gruppo di ragazzi con processi mentali meno convenzionali e dopo averci passato del tempo mi ero reso conto che i loro desideri erano praticamente gli stessi di chiunque altro, quindi è stato abbastanza semplice metterli in parole.
La scelta di dedicarti alla pittura si pone in rottura o in continuità con la street art che fino ad allora forse rappresentava il tuo ambito di maggiore interesse?
Un cantante smette di essere un cantante se prende un periodo di pausa dai concerti per incidere un disco? Io penso che l’importante sia che si cerchi sempre di proporre buona musica.
Cosa può raccontare ancora la pittura nel 2016? E la tua?
Può darsi che in questo periodo storico in cui c’è una tendenza a digitalizzare l’esistenza la pittura possa venir vista come una forma d’espressione antiquata e superata, ma penso che le condizioni, i turbamenti e le emozioni umane che da sempre la ispirano rimangano piuttosto simili a sé stessi in ogni epoca. La delusione per un amore perduto o il piacere di un gesto gentile, l’agitazione o l’eccitazione non sono così differenti se provate arando un campo o all’ultimo piano di un grattacielo e la pittura sarà sempre un buon mezzo per raccontare le storie dell’umanità.
Socialmente oggi c’è una malcelata aspirazione a voler apparire più perfetti di quanto non si sia veramente, per fare parte di una maggioranza in qualche modo superiore a quelli che, umanamente, cedono alle loro debolezze e che sono da emarginare. Si tende a essere schiavi del proprio riflesso, mentre io spesso dipingo e racconto di imperfezioni, di disagi e fragilità, di diversità che sono state e sono ancora mie e spero di riuscire a regalare qualche emozione a chi ha tempo e voglia di confrontarsi con questi temi, che sempre più spesso mi convinco non appartengano esattamente a una minoranza.
Iconofilia o iconoclastia? Racconti mitici o micro-storie?
Per natura sono contrario a simboli, istituzioni e poteri forti e penso che esista una rabbia positiva che deve distruggere per poter ricostruire, sono costretto a pensarlo per giustificare alcuni miei modi di fare.
Tra miti e storie comuni non posso scegliere, sono profondamente legati, molti grandi racconti iniziano con un piccolo gesto, spesso inconsapevole.
Che cosa hai presentato alla Galleria Varsi? Descriveresti la varietà delle opere in mostra, indicando, qualora ci fossero, un aneddoto, un rapporto autobiografico o un rimando alla contemporaneità?
Nelle opere che ho portato alla Varsi c’è il Tempo, dell’adolescenza e della rabbia, della maturità e del piacere, della vecchiaia e dell’accettazione. Ci sono donne e uomini che si riscoprono bambini, c’è la scomodità e la costrizione, la rabbia e il fastidio di quando ero ragazzo e il percorso verso la maggiore complessità che sto seguendo, c’è il passato, c’è il presente e il futuro che come dice il mio amico poeta compongono l’eternità, o almeno, dico io, spero riescano a farne una piccola porzione.
Ho dipinto tele e materiali meno convenzionali, come supporto per alcune opere e la maggior parte degli aneddoti che mi vengono in mente sono legati a incidenti durante la preparazione, tra veli impigliati o strappati per sbaglio, incidenti col trapano che quasi mi staccavano l’indice destro e lastre di plexiglas lanciate contro il muro. Ci sono le mie mani ovunque, probabilmente anche troppo.
Perché Nox Omnibus Lucet?
Perché di notte tutto è più bello che di giorno.
Francesca Mattozzi
Roma // fino al 14 luglio 2016
Luis Gomez de Teran – Nox Omnibus Lucet
GALLERIA VARSI
Via di San Salvatore in Campo 51
06 68309410
[email protected]
www.galleriavarsi.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/54530/gomez-nox-omnibus-lucet/
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