Monumento a una prostituta. Storia di Carmela e di un muro cancellato
Seconda edizione per il Festival Verso Sud, piccola perla della provincia di Bari. E anche quest’anno scoppia una polemica legata a un murale. Dietro c’è la storia di una donna, la “Bocca di Rosa” di Corato, una prostituta divenuta una piccola leggenda locale. Un artista ne celebra la memoria, ma qualcuno si mette di traverso. Riflessioni sull’arte pubblica, tra le pieghe della provincia del Sud Italia.
CARMELA, UNA MUSA PER IL FESTIVAL
C’erano Tripolina e Salomè, femmine di un’Italia fascista e partigiana, inquiline del bordello di via dei Fiori, a Roma: con loro, e con l’impavida disperazione dell’anarchico Tunin, si intrecciavano eros e politica, desiderio e ribellione, nella trama di D’amore e anarchia, gioiello di Lina Wertmüller, premiato a Cannes nel 1973 grazie al talento di Giancarlo Giannini. Poi c’era Bocca di Rosa, ambasciatrice di un amore libertino nel borgo di Sant’Ilario, travolta dalle chiacchiere ed esiliata: Fabrizio de André in lei cantò il perbenismo di provincia e una certa umanità radiosa, scovata tra gli ultimi e i peccatori.
E poi c’è Carmela. A proposito di donne, di emarginazione e di corpi in vendita. Nata a Corato (Bari) agli inizi del secolo scorso, passata a miglior vita negli Anni Ottanta, esercitò la professione nella sua casetta malandata, in Piazza Sedile, al centro del paese. Carmela Dell’Abbazia è ormai un personaggio mitologico locale, intorno a cui sono fiorite favole, canzoni, poesie. La “Bocca di Rosa” di Corato – così fu ribattezzata – pare che durante la Seconda Guerra Mondiale si salvò la pelle dai bombardamenti e la salvò ai suoi coincittadini, greazie al suo mestiere: dai soldati americani che andavano a trovarla, fra le quattro mura di quella casina bassa, ebbe una specie di protezione, un occhio di riguardo. Così vorrebbe la leggenda.
Carmela è stata una delle protagoniste della seconda edizione di Verso Sud, il festival di poesia, musica, teatro e arte pubblica, promosso dall’associazione Lavorare Stanca. Il tema di quest’anno era l’abbandono. Declinato in una doppia linea: come solitudine, margine, giudizio, ma anche nell’inedita accezione di dono. Abbandonare, ovvero “mettere a disposizione di chiunque”.
Tra le storie al femminile quella di Dissonorata, spettacolo scritto e interpretato da Saverio La Ruina, vincitore del prestigioso Premio Ubu, messo in scena en plein air dinanzi al murale della street artist argentina Yuro: la storia di una ragazza del Sud, figlia della miseria e dell’ignoranza negli anni del Dopoguerra, con addosso il peso del pregiudizio e dell’infamia. L’abito svolazzante, dipinto su un muro della piazza, è un involucro vuoto, una memoria viva, un simbolo che resta per la piccola comunità coratina.
ARTE PUBBLICA. LA LEGGE DELL’ASCOLTO
A Carmela, invece, ha dedicato un muro Rizek, street artist pugliese. Proprio là, sulla facciata di quella che era stata la dimora della donna e che oggi è poco più di un rudere malconcio. Un mix tra stencil e pittura spray: il ritratto di lei, bellissima, con un filo di perle fra le dita, per resuscitare quel pezzetto di edificio ridandogli una pelle, una narrazione, una vibrazione affettiva. Riattivandone la memoria. In basso, sull’uscio di una porticina, la figura di uomo. Una citazione dal film della Wertmüller, con un Giannini-Tunin in attesa dell’amata signorina in Via dei Fiori.
Lavoro durato pochissimo. Una manciata di giorni e la parete è tornata intonsa. E stavolta non c’entrano l’amministrazione, la protesta di un cittadino, il gesto di un vandalo o un qualche conflitto locale. Qui a intervenire sono stati la famiglia, i figli e i nipoti di Carmela, contrari a quella celebrazione in forma di ritratto, che bruciava come un nuovo marchio a fuoco in pubblica piazza. “Ci hanno chiesto di cancellare l’opera perché, socialmente, questa aveva riaperto delle ferite che si erano cicatrizzate”, ci spiegano Giuliano Maroccini e Luigi Piccarreta, fondatori di Lavorare Stanca e curatori di Verso Sud. “Si parla di storie di vita forti, di quella umanità pasoliniana che ancora resiste, frammentata. Il dialogo con i familiari è stato quello tra due mondi che non si conoscevano, ma che si cercavano. Abbiamo ascoltato da loro visioni artistiche sulla questione, che forse nessuno ci aveva posto prima. Non ci sono state tensioni particolari, è bastato guardarsi negli occhi”.
Censura? In qualche modo sì, forse. Ma probabilmente lecita. Artista e organizzatori hanno scelto la via del rispetto, dell’ascolto. Meno contenti gli abitanti di Corato, privati di qualcosa che era già sentita come propria: in questo caso gli eredi avrebbero dovuto compiere l’abbandono finale. Lasciare andare l’immagine di Carmela, farne dono alla comunità. “Sono in tanti ad aver accolto bene il murale”, continuano Giuliano e Luigi, “ma le ragioni umane di chi si sente direttamente coinvolto vengono prima di tutto: non si può prescindere da quelle quando si fa arte pubblica”. Difficile mediare tra i singoli e la folla, una volta che un’icona ha preso vita nello spazio collettivo. E allora, la faccenda, bisognava gestirla prima.
MURI COME DETONATORI
“Volevamo nobilitare questa figura nella sua dignità e poesia”, spiega Maroccini, “un omaggio a tutte le Carmela del mondo. Ma se lavori sull’arte pubblica, senza soglie, questa prospettiva non è sufficiente. Dunque sì, abbiamo sbagliato, non abbiamo aperto completamente il nostro sguardo fino a comprendere, oltre al mito, la vita reale. Sarà un insegnamento prezioso su come sia necessario un approccio all’arte più ancorato alla realtà. Diversamente avremmo la miseria sconfinata del decoro pubblico”. La prima suggestione che emerge da questa piccola vicenda sta proprio in questo passaggio: l’azione narrativa nello spazio pubblico si allontana dalla decorazione quando, innanzitutto, si mette sulle tracce di un senso forte, trasposto nella forma, incarnato nell’immagine, agganciato all’esistenza.
Ma quest’opera, a prescindere da una valutazione strettamente artistica, qualcosa ha smosso. Sollecitando tra gli altri il tema del giudizio, della dignità. A distanza di anni è ancora la vergogna a segnare lo status di Carmela? Quel muro, detonatore silenzioso, ha riportato a galla lo stigma, l’ombra del pregiudizio? “Il problema è ampio”, continua Giuliano, “e riguarda il nostro rapporto con la sessualità e con il femminile in genere. La prostituzione è illegale, nonostante sia il massimo collante umano e sociale della storia dell’uomo. Vi faccio solo un esempio: costruiamo le rampe per i disabili, parcheggi riservati, bagni a loro misura, ma ci preoccupiamo mai della loro soddisfazione sessuale? Se non ci fossero le prostitute chi ci penserebbe?”.
Movimenti imprevisti, ancora una volta al margine di un dipinto.
Proprio come quando, per la prima edizione di Verso Sud, il murale di Luis Gomez dedicato al parlamentare Giuseppe Di Vagno, martire del Fascismo, aveva aperto la polemica: in ragione di un intervento di riqualificazione urbana, l’opera sarebbe stata completamente occultata da un nuovo corpo architettonico. Immediata la sollevazione popolare, con relativo dibattito intorno al ruolo dell’amministrazione, alla voce del pubblico, alla natura del restauro, al valore sentimentale di un’immagine-monumento. L’opera, ad oggi, è ancora lì. Con tutta la fierezza di aver contribuito ad avviare nella comunità un processo di riappropriazione, un pensiero intorno al destino dei propri luoghi e dei simboli comuni.
LA PROVINCIA, TRA INCANTO E SFIDA
E quest’anno, daccapo. Il caso di Carmela ha tirato in ballo ancora il tema della genesi dell’opera, della sua sparizione e del rapporto con lo spettatore. “Da sempre è la provincia a dare le spinte più estreme verso l’avanguardia”, commenta Maroccini. “Penso a Leo de Berardinis e al teatro di Marigliano, oppure a certe esperienze contemporanee come quella de La Luna e i Calanchi ad Aliano. Anche per questo sento che la rivoluzione gentile che cerchiamo di portare avanti ha il suo nido lontano dalla metropoli, in quei posti dove è possibile scavare per giungere all’essenza delle cose”. In contesti minuscoli, ancora vergini rispetto alle pratiche dell’arte pubblica e del contemporaneo, laddove la condivisione è forte e necessaria, probabilmente ha ancora più senso agire, toccare certe corde. I cortocircuiti sono marcati e le conseguenze non scontate.
“Il nostro lavoro”, concludono i due curatori, “non riguarda l’arte pubblica come linguaggio a sé stante, ma lo coinvolge in una rete dialogica che comprende le altre arti, la vita quotidiana della comunità, i cambiamenti di luce, le varie stratificazioni di utilizzo e fruizione degli spazi. I luoghi del margine, e in particolare il Sud, mantengono da questo punto di vista un incanto che molte città hanno perso”.
Luoghi che sono micro universi, in cui la fatica delle conquiste sociali, il rumore delle rivolte, il bisbiglio del vizio, i muri alti e le feritoie, il velo dell’ipocrisia e la verità delle relazioni sono la voce sommersa del Paese. Con tutte le sue contraddizioni, con tutti gli abbandoni.
Helga Marsala
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