La lunga lotta dei writer di 5 Pointz. Dopo la demolizione il colpo di scena legale a New York
Writing e Street Art sono forme d’arte? Certo che sì, ma fino a che punto? Quando si entra nel campo del diritto d’autore le cose si complicano. Ed ecco cosa è appena successo nella Grande Mela, per un ex tempio del graffiti…
È conosciuto in tutto il mondo come “5 Pointz”, nome che gioca coi cinque distretti amministrativi di New York. O forse sarebbe meglio usare l’imperfetto: era conosciuto. Perché di quel posto incredibile, definito “museo”, “centro d’erte”, “tempio dei graffiti”, oggi non rimane nulla. A parte il ricordo e le molte tracce in Rete. “5 Pointz” era una vecchia palazzina del Queens, che all’inizio degli anni Novanta ospitava soprattutto studi di artisti. I proprietari – i fratelli Jerry e David Wolkoff – decisero di tramutarla in una gigantesca tela di cemento, a disposizione di writer e street artist. Ne venne fuori un’opera d’arte progressiva, anarchica, esplosiva, un tripudio di colore, tag e illustrazioni in evoluzione. Un’autentica attrazione urbana. Il picco di notorietà fu raggiunto a partire dai primi anni 2000, quando il writer Jonathan Cohen, meglio noto come “Meres One“, prese le redini del progetto, divenendone curatore.
LE RUSPE E LA DURA LEGGE DEL MERCATO
La favola finisce nel 2011, non appena i proprietari cedono alla sirene del business immobiliare. Ed ecco l’annuncio. Una volta demolito lo stabile, sarebbero sorti due grattacieli con 1300 appartamenti di lusso. Scoppia la protesta, gli artisti si mobilitano, partono gli appelli (pure Banksy si pronuncia) e vengono persino interpellati i giudici. Un solo grido: nessuno tocchi 5 Pointz. Ma la legge dell’imprenditoria non conosce ragioni, a parte quelle del portafogli. Fallisce così il ricorso alla giustizia, mentre l’amministrazione newyorchese non concede il riconoscimento di area di interesse culturale.
A novembre 2013 vengono imbiancate le facciate ricoperte di graffiti. Pochi mesi dopo le ruspe fanno il loro sporco lavoro. Ma la battaglia non si arresta. Nel 2015 il gruppo di artisti capitanati da Cohen fa ricorso, chiedendo giustizia per quel gesto vissuto come un sopruso. E stavolta si appellano al Visual Artists Rights Act (VARA), un codice che tutela i diritti degli artisti quando la proprietà autoriale non coincide con quella materiale. Caso emblematico è proprio quello dei murales realizzati su dimore private. Diverse, però, le limitazioni. Una su tutte: le opere devono essere di comprovato valore.
UNA PRIMA VITTORIA PER GLI ARTISTI
A sorpresa, a fine marzo 2017 il giudice Frederic Block ha ammesso il ricorso, che i proprietari avevano tentato di rigettare, appellandosi alla mancata certificazione di qualità artistica. Per la giustizia americana sarà una commissione di critici a pronunciarsi; quindi, il tribunale deciderà se concedere il risarcimento, applicando il VARA. E messe così le cose, pare proprio che gli ex inquilini di 5 Pointz potrebbero spuntarla: se – come ha specificato Block – non era possibile impedire la demolizione, ben diversa è la questione relativa a danni e indennizzi. La partita è dunque aperta. E la posta in gioco va oltre il singolo caso: la strada verso il riconoscimento di uno status storico-artistico, anche per le forme più indipendenti d’arte urbana, si fa sempre più netta. Opere effimere, esposte al degrado, al crossing selvaggio e alla consunzione naturale, ma anche al pugno duro della gentrificazione e della speculazione edilizia. Così è ed è sempre stato. Ma qualcosa cambia, per gli artisti stessi e nel campo severo del diritto. Mentre cambiano, tra miriadi di contraddizioni, i contorni e i paesaggi delle metropoli contemporanee.
– Helga Marsala
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