Sentirsi un muro. L’editoriale di Marco Senaldi
Parte da un muro di colore, questo editoriale di Marco Senaldi. Un muro di vernice, un atto di vandalismo. Ma in cosa differiscono dai muri “fisici”?
Che effetto fa sentirsi un muro? Sentirsi una superficie minerale, esposta perennemente non solo alle intemperie, ma anche agli sguardi, al capriccio o al puro vandalismo di chi passa? Ah, se lo sapessi, che postumano sarei… Però, che effetto fa stare al di là del muro, quello sì che si può capire. Guardate bene questa immagine, colta da dentro un misero vagone regionale, infelice ab origine nel suo design da capitalismo reale, brutalizzato dalle ingiurie dei viaggiatori esasperati, smangiato dal nulla della routine quotidiana. Ecco, tutto questo non è niente a paragone dello sfregio supremo che oscura il sia pur patetico finestrino.
La tag, che vista da fuori, bella o brutta che sia, un qualche significato (ma quale?) ce l’avrà anche avuto, diventa qualcosa del tutto diversa se vista da dentro. Credo sia un problema che forse nessun writer – o forse: nessun artista? – si è mai posto veramente. Che cosa succede dietro il quadro? Beh, forse qualcuno invece la domanda se l’è fatta: Cornelis Gijsbrecht, per esempio, risponde dipingendo il retro della tela esattamente sul verso, creando un trompe-l’œil che ci spinge a “girare” il quadro dalla parte giusta, che non c’è; mentre Marcel Duchamp, col suo Grande Vetro, gioca proprio sulla necessità, per chi guarda, di doversi recare dietro l’opera stessa, per scoprire che si tratta della stessa immagine vista in trasparenza.
La tag, che vista da fuori, bella o brutta che sia, un qualche significato (ma quale?) ce l’avrà anche avuto, diventa qualcosa del tutto diversa se vista da dentro.
Ma se il gesto – in sé così nobile, e persino ancestrale – di stendere il colore su una superficie che ci si para di fronte avviene in modo del tutto irriflesso, allora non solo qualunque senso si smarrisce, ma sorge il contro-senso, la catastrofe della forma, la sventura dell’occhio. Quel colore non è più colore: è materia opaca che spegne la trasparenza aperta sul fuori e rende cieco il paesaggio. Toglie la luce, rabbuia ancor di più il già squallido interno, e soprattutto – suprema angheria – rende impossibile al passeggero di distrarsi lasciando vagare lo sguardo verso l’esterno.
E questo, al di là della volgare imbrattatura di spray, è vero per qualunque vandalismo, di cui si conoscono esempi ben peggiori e di proporzioni assai maggiori: è l’orripilante sfilata dei capannoni suburbani che ormai hanno devastato il territorio nazionale, l’asfaltatura dove una volta c’era l’innocente ghiaia, la smisurata rotonda per un modestissimo svincolo stradale periferico, lo sbancamento per un’ennesima strada che distrugge esattamente la rustica bellezza del paesaggio a cui doveva condurre e che pertanto, ora, non ha più il minimo motivo di esistere, o il Muro elevato per dividere e pacificare e che invece attira tutto l’odio possibile di quelli che si trovano dall’“altra parte”.
In tutti questi e in infiniti altri casi, non dovremmo davvero fare lo sforzo mentale di porci “de l’autre côté” prima di chiudere, verniciare, edificare, bloccare, erigere, soffocare? Tutta questa attività di incessante occlusione non ci sta portando a una situazione sempre più simile alla claustrofobica metafora dello Snowpiercer – l’implacabile treno destinato a circolare incessantemente per tutta l’eternità in un mondo abbandonato al suo destino glaciale, senza neppure il conforto momentaneo di poter guardare fuori?
Forse dobbiamo ricominciare a fare i calcoli giusti: perché se è vero che, come dice il poeta, che “Un più nel mondo è un meno nel senso”, allora questo continuo “addizionare cose” rischia di coincidere con la più totale sottrazione di significato.
– Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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