Un artista pubblico. Parola a Biancoshock
Di origini milanesi, Biancoshock preferisce definire il proprio lavoro arte pubblica, attribuendo alla Street Art un’identità ancora nebulosa. Amante delle tecniche più svariate e instancabile sperimentatore, l’artista si racconta. Fra passato e presente.
Qual è la tua definizione di Street Art?
Sinceramente non saprei ancora definirla. Vedo tanta confusione in merito: decorazioni sui muri, graffiti, illustrazioni, photoshopper, situazionisti, performer, digital artist, stencil, sticker, meme… Tutte figure/discipline/tecniche molto diverse tra loro, buttate a cuocere nello stesso pentolone per ottenere una zuppa che possa piacere un po’ a tutti. D’altronde la zuppa è un piatto popolare, a basso costo, nutriente e che ti danno da mangiare fin da bambino. A parte tutto credo che serva ancora un po’ di tempo per consolidare questo ‘movimento’ e delineare meglio quali siano le sue ossa e i suoi muscoli.
Personalmente, quando devo, preferisco definirmi artista, nello specifico di arte pubblica.
Quali luoghi sono per te fonte di riflessione e ispirazione? Quali contesti urbani?
Per me qualsiasi luogo, inteso come spazio fisico in cui si manifesta una comunità, è un’opportunità di riflessione e fonte di ispirazione, compresi luoghi virtuali come piattaforme social, community, ecc. Parte dei miei progetti sfruttano il web come veicolo in cui operare e trasmettere un messaggio attraverso un’azione artistica virtuale. In ambito ‘reale’ ogni strada ha una propria storia, una propria forma e un proprio sapore. Non esiste un luogo uguale a un altro, perché sono le persone che lo vivono (o che lo hanno vissuto, nel caso di luoghi abbandonati) che lo rendono unico, che gli ritagliano una storia tutta sua.
Cosa vuoi raccontare attraverso le tue installazioni? Qual è il tuo messaggio?
Ogni mio lavoro (che sia un’installazione urbana, una performance, un’azione virtuale, ecc.) è concepito per trasmettere un messaggio. Spesso tratto tematiche attuali condendole con un po’ di provocazione e un pizzico di ironia. I miei interventi si concretizzano come piccoli disturbi visivi e emotivi: per quanto mi riguarda un artwork è efficace se in pochi secondi è in grado di catturare la tua attenzione, di trasmetterti un messaggio e di lasciarti continuare a fare quello che stavi facendo, magari con un sorriso sulla bocca e un piccolo punto di domanda in più. Non ho tematiche fisse, anche se negli anni mi sono accorto che i miei lavori sono spesso incentrati su argomenti come la crisi, la e/im-migrazione, il virtuale, i graffiti: non credo sia un caso che tutti questi siano elementi che fanno parte della mia vita quotidiana.
Da sempre e sempre più spesso i brand utilizzano forme artistiche per comunicare e promuovere la propria identità e quella dei prodotti. Che ne pensi? Hai avuto e pensi potrai avere esperienze in tal senso?
È frutto di tutta questa attenzione mediatica nei confronti della Street Art, proprio perché è una forma di espressione artistica molto pop, che arriva a tutti e che, diciamolo, molto spesso è a basso costo. Il brand attinge sempre da quello che va di moda, è normale e giusto che sia così. I brand fanno marketing utilizzando quello che fa hype in quel momento.
Non giudico chi lavora per/con i brand, come in tutte le cose servono solo equilibrio e buon senso. Trovo molto più triste chi passa le giornate sui social a fare like4like o a seguire account finti per arricchire la propria pagina di finti account dal Pakistan rispetto a un artista che decide di lavorare con un brand per un tornaconto economico.
L’importante è che in entrambi i casi si mettano da parte parole come credibilità, indipendenza, arte pubblica.
Il tuo rapporto con i festival e nei contesti più istituzionali come le gallerie d’arte: che valore hanno e danno a un artista oggi?
Se parliamo di ‘hic et nunc’, festival e gallerie possono decidere se tu sei dentro o fuori un determinato sistema. Ho avuto l’onore di partecipare ad alcuni tra i festival più importanti del mondo ma anche a festival improvvisati da organizzatori che dovevano sbarcare il lunario una tantum, così come mi son ritrovato a partecipare a mostre in gallerie di ‘nuova generazione’ con curatori che avevano preso una laurea triennale due giorni prima dell’inaugurazione e sbagliavano a scrivere il mio nome nelle didascalie.
Tutto questo è stato essenziale per far esperienza e crescere, senza queste possibilità non avrei mai conosciuto persone fantastiche e non avrei mai maturato nuove visioni. Ma si esaurisce qui: in questi ultimi due anni ho rinunciato a diversi inviti: sia chiaro, non lo dico con presunzione, ma solo per spiegare che si arriva a un certo punto dove non serve più dire di sì tanto per esserci e sentirsi parte di. Personalmente sento il bisogno di progetti seri, di curatori preparati, di budget per realizzare opere mature, non di rimborsi spese o di vacanze con il biglietto aereo pagato.
Cosa ne pensi del proliferare artistico attraverso i social network ‒ e in generale con il digitale? Che futuro prossimo intravedi in questo senso?
A oggi il digitale è uno strumento indispensabile, sarebbe stupido pensare il contrario. Se oggi posso considerarmi un artista minimamente riconosciuto a livello internazionale è perché i miei lavori sono stati pubblicati in tutto il mondo, anche attraverso la rete e i social network.
Ma ci vuole equilibrio: per me fare arte pubblica significa innanzitutto ‘fare’ e poi farlo in strada, creare occasioni di comunicazione per il mio pubblico, che sono i passanti. Internet può successivamente aiutarmi a divulgarle, ma tutto nasce sempre dalla strada e dalle persone che la vivono.
Quello che più mi spaventa è la direzione che si sta delineando: vedo artisti di strada che si comprano i follower o si ‘pompano’ i profili di finti like. D’altronde più di una volta ho avuto a che fare con curatori/organizzatori che contattano gli artisti in base al numero di follower che hanno. Strani parametri in un mondo sempre più social.
Arte tradizionale e arte virtuale: affinità e divergenze, secondo te.
Io vivo l’arte come un veicolo emotivo con cui trasmettere dei contenuti, dei messaggi.
In qualsiasi modo mi venga in mente. Mi piace sperimentare nuove tecniche, mezzi e media. Il virtuale è un mondo ben definito oggi, con un pubblico infinito e variegato che si comporta seguendo dei comportamenti virtuali ben precisi e guidato da algoritmi e connessioni relazionali. È la trasposizione di una vera e propria comunità civile, per cui trovo molto stimolante studiare azioni/performance artistiche che si esprimano con un linguaggio virtuale, che usi la rete non tanto come canale per diffonderle bensì come parte essenziale dell’opera d’arte.
Quali tecniche utilizzi e quali vorresti esplorare?
Sono un artista autodidatta, anche dal punto di vista tecnico. Mi adatto ogni volta all’idea che elaboro. Per me l’aspetto più stimolante di tutto questo è appunto quello di non avere una modalità ben definita. Ho lavorato con qualsiasi tipo di materiale, su qualsiasi tipo di materiale. Ogni volta devi trovare la soluzione ideale, devi studiare, testare, provare e riprovare. Questa parte del processo spesso mi dà più soddisfazioni del risultato finale dell’opera. A oggi sto studiando molto i laser e una nuova forma di… restauro.
Progetti per il futuro?
Quest’anno ho rallentato sensibilmente la mia produzione artistica. Dopo quattordici anni e quasi mille interventi urbani, ho deciso di tirare un attimo il fiato e concentrare le mie energie sulla ricerca e la sperimentazione.
Non so ancora quale sarà il prossimo step del mio percorso, di sicuro sto portando avanti diversi progetti che si svilupperanno nel corso degli anni: questa è una parte che mi è sempre mancata. Ho passato anni impostando un’attività artistica massiva, spinto da un’esigenza personale emotiva di ‘fare arte’, di comunicare al mondo dei messaggi.
Oggi è diverso, siamo bombardati da immagini di opere d’arte, dieci anni fa non vedevo molti artisti fare un’arte vicina alla mia, oggi ce ne sono molti e molto bravi. Credo quindi sia il momento di cercare di andare oltre, di mantenere sempre la stessa attitudine spostandomi verso interventi più sperimentali, con connotazioni diverse dallo standard attuale.
‒ Alessia Tommasini
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