Che mondo sarebbe senza graffiti?
Claudio Musso si interroga su una domanda paradossale: che cosa succederebbe se sparissero i graffiti?
La domanda che funge da titolo a questa breve riflessione potrebbe sembrare una provocazione, sia nel senso di sfida all’opinione diffusa sia nell’accezione di stimolazione di uno sguardo differente. Se provassimo a fare un semplice esercizio di immaginazione, cancellando – magari con l’aiuto di uno strumento come quelli presenti nei software di computer graphic – ogni traccia dei tanto vituperati (di)segni urbani chiamati ancora comunemente “graffiti”, cosa accadrebbe? Forse niente, chissà.
Ma per svolgere il compito a pieno non ci si dovrebbe limitare a pulire qualche angolo di strada o qualche elemento di arredo urbano, sarebbe necessario agire a fondo nella memoria visiva eliminandone ogni riferimento che, almeno dagli Anni Ottanta a oggi, ha pervaso l’immaginario collettivo dal cinema alla moda, per non parlare dell’arte. L’azione di rimozione dovrebbe toccare per esempio la maggior parte delle opere cinematografiche ambientate nella Grande Mela negli ultimi cinquant’anni, tutte le scene girate in metropolitana, anche in pellicole insospettabili come Il principe cerca moglie (1988, di John Landis). E anche questo incredibile sforzo non basterebbe, perché la capillarità della diffusione mondiale dei graffiti è tale per cui l’indagine andrebbe estesa a un elenco sterminato di prodotti culturali. Senza dubbio non ci si potrebbe limitare agli Eighties come Golden Age del Graffitismo, visto e considerato che l’incredibile presenza di treni e muri “dipinti” si riscontra anche nei più disparati scenari fantascientifici, persino nella San Fransokyo del blockbuster di animazione Disney Big Hero 6 (2014, di Don Hall e Chris Williams).
“Se provassimo a fare un semplice esercizio di immaginazione, cancellando ogni traccia dei tanto vituperati ‘graffiti’, cosa accadrebbe?”
Nonostante questa innegabile e tangibile presenza, il più delle volte ai graffiti tocca guadagnare posizioni di rilievo nel dibattito pubblico solo in concomitanza con appuntamenti elettorali che possano cavalcare l’ennesima campagna di pulizia o, peggio, di repressione in nome della lotta al degrado, neanche fossimo in piena voga della famigerata broken windows theory. Nelle prime battute di uno straordinario documento sul Graffiti Writing a New York, il film Style Wars (1982, di Henry Chalfant e Tony Silver), il detective Bennie Jacobs afferma: “I graffiti […] non sono arte” e, continua, “a voi sembrano un forma d’arte? Io non sono un critico, ma vi posso assicurare che sono un crimine”. Qualche anno dopo Lee Quiñones risponderà: “I graffiti sono arte, e se l’arte è un crimine che Dio ci perdoni”.
Di certo siamo ancora lontani dalla possibilità, almeno in Italia, che il mondo accademico o gli enti culturali si aprano al fenomeno e si facciano promotori di studi e ricerche di spessore sull’argomento. Nel frattempo appare sempre più chiaro che abbiamo perso un treno o, peggio, che stiamo sbagliando strada.
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47
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