Nuova opera d’arte urbana a Roma. Lucamaleonte fa il ritratto al quartiere San Lorenzo
Un artista che lavora con le simbologie e le memorie collettive. Una fondazione legata al territorio capitolino e a un quartiere in particolare. Una storia di stratificazioni e di identità condivise. Uomini, dei, santi, guerre, campi di grano, chiese, corpi, geometrie. San Lorenzo raccontato sul nuovo muro di Lucamaleonte.
L’importanza della storia dell’arte. L’ossessione per l’archiviazione e per l’idea di collezione. Le costellazioni di metafore e di segni emersi dal tessuto della storia. La natura come orizzonte costante: piante, animali, erbari, bestiari. Tra realtà e dimensione fantastica. E infine lo stile, che è il suo e basta. Fatto di alcuni riferimenti precisi – l’illustrazione d’epoca, i grandi pittori e incisori del Rinascimento, una certa attitudine fiabesca – ma così riconoscibile. Lucamelonte (Roma, 1983), artista italiano con un sfilza di prestigiose presenze internazionali, maestro dello stencil e insieme abilissimo disegnatore, in quasi 20 anni di carriera ha collezionato un elenco lunghissimo di mostre, festival, progetti indipendenti, committenze, interventi sui muri di piccoli centri e grandi città.
A Roma ha dipinto tanto, come a Milano, Londra, Berlino, Parigi, New York. E l’ultima fatica per la Capitale – grande quasi 10 metri per 10 – è stata appena presentata a San Lorenzo, storico quartiere dall’anima popolare, studentesca, anti-mainstream, tradizionalmente orientata a sinistra, con una vivacità culturale mai sopita, nonostante la crisi, il degrado, la movida più spinta mixata alla cronaca più nera.
PASTIFICIO CERERE, ARTE URBANA E NUOVI GIOIELLI
Qui, in via dei Piceni, a soli 100 metri dal suo nuovo lavoro en plain air, Lucamaleonte ha avuto il suo primo studio, per 4 anni, diviso con quei talenti strutturati e infaticabili di Sten e Lex, altro diamante della scena street italiana. E qui, in via degli Ausoni, accato al civico che ospita da mezzo secolo i mitici studi della scuola di San Lorenzo, ha sede la Fondazione Pastificio Cerere, che questo muro ha voluto e promosso, con la cura di Marcello Smarrelli.
“Patrimonio indigeno” si intitola il nuovo gioiello, che di Lucamaleonte ha il consueto segno aggraziato ed elegante, di un’eleganza mai leziosa: contrastato, cesellato, inciso, a evocare i timbri di inchiostri d’antan, di pregevoli xilografie e di antichi torchi, accostando i volumi chiaroscurali ai guizzi di colore brillante.
Un altro modo, per un’istituzione attiva da anni sul territorio, di stabilire un dialogo con i residenti, con la memoria viva e le dinamiche attuali del quartiere, facendo dell’arte contemporanea un’occasione: serbatoio di immagini e di riflessioni – qualche volta eccellenti, spesso mediocri, mescolate con i segni spontanei della strada, i corpi organici dell’architettura e le infinite stratificazioni della pubblicità – l’Arte Pubblica continua a connotare i luoghi e a sedimentare testimonianze. Nel migliore dei casi innescando processi, nel peggiore apparecchiando superflue decorazioni (magari fintamente engagé, ma quella è un’altra storia).
E a Lucamaleonte l’espressione “Street Art” – col suo significato che sfuma, con l’originaria illegalità e il graffitismo della prima ora – resta stretta, persino inadeguata. I muri, per lui, sono come enormi tele o tavole lignee trasposte nello spazio: uscite dal perimetro del museo o dell’atelier, appartengono a tutti e con gli sguardi di tutti si relazionano. Un rischio, una responsabilità, la ricerca di un canale di comunicazione.
TUTTI I SIMBOLI DELL’OPERA
Patrimonio indigeno è un’operazione di lettura identitaria e dunque di costruzione di un senso comune. Faccenda non così scontata, anzi. Ed è ancora una volta un bel compendio di figurazione, illustrazione, simboli, forme destinate a evocare e raccontare. Eloquente il titolo: in questo caso è il quartiere, con tutto il suo patrimonio millenario, a entrare nel “quadro”, o meglio nel muro, sintetizzando la propria storia nell’incastro di segni visivi. Ne viene fuori una narrazione silenziosa, distesa sul verde squillante di un fitto fogliame: fioriture iconografiche su uno scorcio di prateria urbana.
Tra le due porzioni di muro, spalancate come quinte, si srotola un pantheon eterogeneo: uomini, dei, santi, guerre, campi di grano, chiese, corpi, geometrie. C’è la mano di Cerere, dea delle messi a cui l’antico Pastificio è intitolato, con un bouquet di spighe offerto al popolo, alla città, al rito dell’immaginazione; c’è il serpente di Minerva, custode della sapienza e nume tutelare all’antica università, che è cuore e orgoglio di questi luoghi; c’è la graticola rovente su cui San Lorenzo soffrì le pene del martirio; c’è il picchio variopinto, simbolo di quei Piceni a cui è intitolata la via che ospita il murale; c’è il rosso magnetico dei papaveri, che un secolo fa il Regno Unito elesse ad allegoria floreale per i Caduti della Grande Guerra, e che qui omaggia tutte le vittime della follia bellica: il bombardamento del ’43, voluto dagli alleati per colpire lo scalo ferroviario, devastò il quartiere e uccise oltre 1.000 persone.
E ancora ci sono un capitello dell’antica basilica di San Lorenzo fuori le Mura, il cui primo nucleo risale ai fasti dell’Impero di Costantino I, e un’immagine che conduce all’annesso cimitero monumentale del Verano: il corvo cinerino e un mazzetto candido di crisantemi. L’ultimo elemento Lucamaleonte lo ha dipinto durante la cerimonia di presentazione, come un sigillo su cui mettere l’enfasi necessaria: un icosaedro platonico, tirato giù dall’Iperuranio e aperto a molteplici letture simboliche, tra matematica e filosofia. Una specie di firma, in calce a tutti i suoi lavori.
RITRATTO DI QUARTIERE PER UNA MEMORIA COLLETTIVA
San Lorenzo ha dunque un nuovo, grande ritratto polifonico, che è soprattutto un’operazione di scavo archeologico. Tra il riverbero del mito e la ferita bruciante di vicende storiche non così lontane, la comunità è chiamata a quel processo – colpevolmente demodé – della consapevolezza collettiva. Gli orizzonti improvvisamente si fanno ampi, i muri fragili, le radici robuste, i confini mobili, frastagliati, espansivi, mai uguali a se stessi. Chi siamo? Da dove arriviamo? Cosa raccontano di noi le piazze calpestate nell’indifferenza, le chiese sottratte all’attenzione, i nomi delle strade, le stragi silenziose, le rotte del passato, i sincretismi di lingue e religioni, le linee ibride che percorremmo e che furono alba, sorgente, traiettoria? E basta una composizione di figure per accendere certi interruttori? Naturalmente no. Ma è un contributo visibile, perentorio, messo in scena per tutti, sotto i cieli controversi dell’ennesimo teatro metropolitano.
– Helga Marsala
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