Ritratti, feticci, muri e pregiudizi. Sfregiato a Napoli il ritratto della Tarantina
Anche i muri restituiscono la temperatura del momento. Raccontando storie significative, ma intercettando spesso l’odio, il pregiudizio, la discriminazione. A Napoli dei vandali sfregiano il ritratto della più nota trans cittadina. Scoppia il caos. E nell’indignazione necessaria, l’occasione è utile per riflettere su modi, forme e linguaggi della Street Art e dell’arte pubblica.
È la legge della strada. È arte pubblica, street art, arte urbana, comunque la si voglia chiamare. Immagini condivise, consegnate al destino, al caso, alle intemperie, allo sguardo amico e a quello infastidito, al passaggio distratto e al gesto violento, talvolta. Muri crossati, pezzi cancellati, sovrascritti, spazzati via, oltraggiati, sbeffeggiati, aggrediti. In qualche caso sono logiche stratificazioni, trasmutazioni d’intonaco, di lettering e di colore; in qualche altro no. È violenza: sopraffina, con la mira esatta, con un messaggio chiaro da distribuire alla platea cittadina. E allora nel colpire un’immagine si vuole colpire altrove: odio politico, razziale, sociale, pregiudizio e intolleranza. Dunque va da sé, un’opera in strada può finire così, perché abitare lo spazio pubblico è una scelta radicale, perché non sei in museo e questo fatto ha dei rischi, delle implicazioni. Ma non vuol dire che non ferisca l’ingiuria, la prepotenza, lo sfregio. Miseria umana in forma di bravata.
L’ODIO SUI MURI. DA MELEGNANO A NAPOLI
A Napoli è successo ancora e la polemica è divampata quasi con la stessa forza di quell’altro episodio, registrato in contemporanea a Melegnano, in provincia di Milano: storie di muri anche là, incidendo oscenità a portata d’occhi, di passo. Dei bulli hanno scritto sulla facciata di un condominio “AMMAZZA AL NEGAR”, con una svastica a fianco, pensando così di umiliare Bakary, ragazzino di origini senegalesi adottato da una famiglia italiana. Risorse salvinaine, il cui esecrabile gesto ha trovato nel Ministro Matteo Salvini il più surreale dei commenti: solidarietà alla mamma del “negar”, ci mancherebbe, ma anche lei si sforzi di capire. Signora mia, il popolo chiede sicurezza, è spaventato.
Ignoranza e pregiudizio sono cosa antica, come le brutture sui muri. Ma lo sdoganamento degli istinti peggiori da parte delle istituzioni è tutt’uno con la nevrosi collettiva generata per ragioni di consenso. La politica ha, oggi più che mai, delle responsabilità.
Episodio parallelo quello di Napoli, sempre in tema di odio e discriminazione, ma dal razzismo si passa al fantomatico “gender”. L’arma è ancora una bomboletta, usata con precisione rabbiosa sul ritratto che l’artista Vittorio Valiante aveva dedicato a una residente doc dei Quartieri Spagnoli: la Tarantina. Così la chiamano, da oltre mezzo secolo in qua. E così alcuni residenti l’hanno offesa, insozzata, annullata, disturbati dal suo volto in primo piano, dipinto su un muro a tinte accese. Accanto hanno scritto “NON È NAPOLI”, a voler difendere la città da chissà quale insulto. Non sarebbe, quello della più famosa trans napoletana, il volto della loro terra. Omofobia a suon di segni e censure, ricoprendo di acrilico nero la faccia, tutta intera. Una macchia feroce.
L’ULTIMO FEMMINIELLO. STORIA DELLA TARANTINA
All’anagrafe, Tarantina, è Carmelo Cosma. Nato il 22 marzo 1936, non proprio a Taranto ma nei dintorni, ad Avetrana. Un paesino del Sud, l’adolescenza trascorsa in un’Italia appena emersa da un conflitto mondiale, tra miseria e arretratezza culturale: “D’improvviso la guerra ci sembrò lontana, ci scrollammo di dosso la polvere, la fame, la fatica del dopoguerra“, racconta lei stessa nel libro dedicatole da Gabriella Romano (La Tarantina e la sua “dolce vita”, racconto autobiografico di un femminiello napoletano, Ombre Corte, 2013). Carmelo capisce presto di avere una sessualità diversa, problematica; il che, in quegli anni, da quelle parti, equivaleva a una condanna. Uno stigma sociale tra i più duri. Ma per Carmelo non si tratta solo di amare gli uomini. Il punto è sentirsi donna, in un corpo maschile. Che fare? Come uscirne?
La famiglia lo ripudia. Trovare un posto sicuro nel mondo, una quiete, il rispetto degli altri, era un’impresa. A quei tempi i trans finivano in cella. Il lavoro era precluso: prostituirsi, l’unica chance. Carmelo scappa, va a Napoli, fa la domestica nel quartiere Chiaia, in casa di una signora che affittava stanze alle prostituite. Adolescenza ruvida, disperata. A un certo punto molla tutto e fugge a Roma, attratta dalle sirene mondane della Capitale, il cinema, i divi, la febbre della modernità. Lì trova il coraggio di essere quel che è. Femmina, finalmente. Comincia ad assumere ormoni, si veste da donna, è tempo di night club, feste, travestimenti, solitudine e nessuna noia. Incontra Fellini, Moravia, Pasolini, Goffredo Parise, ma non sa nemmeno chi sono. La dolcezza di una vita accelerata, l’amarezza di una quotidianità scandita da espedienti, marginalità, vendendosi per strada e conoscendo la galera. Poi torna a Napoli, dove sceglie di restare: femminiello per destino, tra i più celebri della città. L’ultimo ancora in vita, oggi, figlio di una lunga tradizione che già allora era letteratura, cinema, identità.
CULTURA E IMPEGNO SOCIALE AI QUARTIERI SPAGNOLI
Il 19 febbraio scorso Vittorio Valiante terminava il suo ritratto, realizzato su un piccolo muro al civico 26 di via Concezione a Montecalvario, non dimenticando di ringraziare “le persone del quartiere per il loro calore e per la loro disponibilità”. Perché i residenti a quel progetto avevano partecipato, collaborato, tra adulti e bambini. Il lavoro dal basso era prerogativa essenziale, così come ribadito più volte nella due giorni di dibattiti, tavoli tematici e produzioni murali, dal titolo St.ar.t Street art comunità e territorio, inaugurata in quell’angolo di Napoli l’8 febbraio: era questa la cornice entro cui vedeva la luce il ritratto di Tarantina, ispirato a una foto di Renato Esposito.
A organizzare l’evento la Fondazione Foqus, di cui sono anima e volto Rachele Furfaro e Renato Quaglia: una realtà nata per i Quartieri Spagnoli, col suo prezioso lavoro di riqualificazione sociale, di formazione, di motore per l’impresa e per micro iniziative di lavoro a beneficio della comunità. Il palazzo che la ospita è diventato un hub culturale e creativo che supera barriere etniche, di casse, di ceto, di background, nel cuore di un’area urbana storicamente nota per fatti di degrado e delinquenza. Rivoluzioni intimamente politiche, coraggiose.
E un’implicazione politica forte ha avuto il ritratto di Valiante, pur senza averne l’intenzione. Un ritratto che celebra un volto irregolare, figlio autentico della città; e che ha toccato delle corde tese, dissotterrando certe intolleranze residue, certi umori neri. Valiante è tutto fuorché un pittore che prova a fare arte sociale, non il classico artista engagé per presupposto teorico ed estetico. Non fa fatica a definirsi “madonnaro”, anche se non sono madonne quelle che disegna sui marciapiedi di Napoli – lungo Via Toledo soprattutto – ma grandi volti sognanti, romanticamente pop: occhi enormi, visi angelici, iperrealismo e un tipo di fascinazione facile, alla portata di tutti. Ricerca poca, linguaggi codificati, una pittura imitativa, molto tecnica, un virtuosismo lezioso, e però un lavoro onesto, che vuole essere quel che è: racconto pittoresco, popolare, decorativo, per allietare transiti urbani e angoli di strade.
Valiante è un artista indipendente, che a un certo punto viene notato dalle istituzioni per la sua abilità e inizia a ricevere commissioni. L’assessore alla IV Municipalità Stefano Capocelli, ad esempio, decide di lanciare l’iniziativa “Sacchetto Selvaggio”, usando la sua arte come deterrente alla maleducazione cittadina. In un pezzetto di marciapiede, dove si accumulavano rifiuti, l’artista inizia a seminare i suoi ritratti. La discarica a cielo aperto diventa galleria. Risultato? Nessuno getta più nulla, o quasi. L’immagine-amuleto inibisce il più incivile dei passanti. L’arte al servizio del pubblico decoro.
E sono oggi anche le istituzioni – oltre a centinaia di cittadini, associazioni, estimatori – a indignarsi per l’offesa inflitta al volto della Tarantina. Il Sindaco Luigi De Magistris, su tutti. Che così ha voluto commentare: “Lo sfregio all’opera di street art compiuta da Vittorio Valiante ai quartieri spagnoli, raffigurante Tarantina, è un fatto indegno e barbaro commesso da mani sporche di inciviltà ed antinapoletanita’. L’opera verrà ripristinata sperando che l’autore del danneggiamento venga individuato e si penta della sua squallida ignoranza”. Intanto oggi, 25 febbraio, un affollato sit-in di protesta ha ribadito con fermezza il sostegno all’opera, all’artista, e a Tarantina naturalmente.
L’ESPLOSIONE DEI FETICCI
Il ritratto di Valiante dunque sarà ripristinato. Ed è un bene. Qualcuno si augura la fioritura di una valanga di muri intitolati a valori democratici, inclusivi. Giusto. Ma quali muri? Di cosa parliamo? Siamo certi che questo sbocciare incontrollato di giganteschi volti celebri o simbolicamente eloquenti sia una strada sensata? Arte poca o niente, il più delle volte. Decorazione tanta. Complessità di linguaggio, di iconografia e di pensiero? Nemmeno. Facce e ancora facce, nel migliore dei casi dipinte bene, in moti casi brutte, pugni negli occhi di chi passa eppure s’incanta, dinanzi a una narrazione da fumetto, da fiction o da fiaba elementare. Ma cosa stiamo facendo dello spazio pubblico, a parte l’idea di una galleria a cielo aperto illustrativa, imitativa, intrappolata in un iperrealismo senza profondità né seduzione? E soprattutto, abbiamo davvero bisogno di feticci?
Dal ritratto di Totti o Maradona, che certo nessun vandalo avrebbe insozzato, a quello del solito Pasolini o Che Guevara, dell’attivista per i diritti umani, del Berlinguer di turno, del vip o del personaggio di quartiere, è tutto un collezionare figure a una dimensione, personaggi di ogni sorta ridotti a semplificazioni mediatiche, a simulacri banali.
E sono in fondo prevedibili le reazioni, tra l’adorazione e lo sdegno, a seconda dei luoghi, dei contesti, dei momenti. Una drammaturgia nota, che poco sposta e poco incide. E allora, senza il bisogno di rifugiarsi per forza tra estetiche radicali, ermetiche, snob, distanti dalla sensibilità del “popolo” (fermo restando che il populismo nell’arte odora sempre di propaganda o di declino), è possibile dire qualcosa di significativo, evitando la trappola del feticismo a buon mercato e della più scontata rappresentazione?
Che sia partecipativa, figurativa, narrativa o concettuale, l’arte muove corde profonde e innesca processi di qualche tipo. Sociali, intimi, umani, mentali. Visioni, piuttosto che figurine. Il tema esiste e il dibattito scalda la scena dell’arte.
Certo il muro di Vittorio Valiante, omaggio affettuoso e sincero, un risultato lo ha ottenuto: l’emersione della peggiore violenza diffusa e una reazione corale di indignazione. Questo resta un merito. Ma poi? Al di là delle migliori intenzioni del singolo autore, è utile continuare a interrogarsi sulle tante committenze, che dello spazio pubblico restituiscono una visione edulcorata, pittoresca, banalmente scenografica, facendo dell’arte un blando strumento di educazione o di ornamento, di finta riqualificazione, di pedagogia spicciola. Altre strade esistono, che riguardano processi di progettazione urbana, di consapevolezza e germinazione culturale: processi lenti, difficili, complessi. In cui l’arte non sia al servizio di qualcuno o qualcosa. Scrittura anziché slogan, sostanza e non orpello. Paesaggio imprevisto e non parodia del monumento.
– Helga Marsala
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