Bellobono vs Atoche. Scontro per un murale cancellato. Street Art da tutelare e conservare?
Un progetto sostenuto da un piccolo comune delle Marche e da un’associazione culturale. Il dipinto di un artista che si consuma e che viene coperto dal più invasivo murale uno street artist. Lo scontro tra i due e le ragioni di un sistema che cambia. Dalle logiche strada a quelle del museo.
Se l’è presa a morte, l’artista Angelo Bellobono, per l’invasione di campo compiuta dallo street artist Carlos Atoche. Il fattaccio risale al maggio 2018, ma Bellebono se n’è accorto solo oggi, per caso. Un suo dipinto, realizzato nel 2017 per il comune di Roccafluvione, in provincia di Ascoli Piceno, non esiste più. Lo ha coperto Atoche con un’opera più ampia e articolata, prodotta per gli stessi committenti: il Comune del piccolo centro montano di nemmeno 2000 anime – tra i 140 colpiti dal rovinoso sisma del Centro Italia – e l’associazione Ecomuseo del Monte Ceresa, alla guida del festival “Omaggio al paesaggio”. E proprio nella cornice della kermesse, che ogni anno mette in campo interventi artistici, workshop, conferenze, escursioni, hanno visto la luce i due murales.
DUE MODI DI LAVORARE NELLO SPAZIO PUBBLICO
Le opere al centro dell’odierna contesa comparvero sulle pareti di un casolare diroccato, alle pendici del Monte Vettore, nello scenario rigoglioso del Parco Nazionale dei Sibillini. Gli artisti furono affiancati da alcune scolaresche, coinvolte nelle fasi di disegno e pittura. Bellobono lavorò con un gruppo di studenti di Arquata e San Benedetto del Tronto, dando vita, su una piccola porzione del rudere, a uno scorcio boschivo integrato dolcemente alle linee e ai colori del paesaggio intorno. Non invasivo, dissolto nella luce diurna, rispettoso del contesto, il lavoro era imbevuto delle atmosfere rarefatte che l’artista (nonché provetto sciatore) affida alle sue tele: dai toni spumosi del bianco ai piani del blu cobalto e del verde smeraldo, dai gialli radiosi agli azzurri striati di nuvole, fino ai riflessi argento e oro, sfaldati nell’atmosfera.
L’opera era parte del progetto in più tappe “Io sono futuro”, con cui Bellobono ha partecipato alla ripartenza delle aree del Lazio e delle Marche travolte dal terremoto del 2017, puntando sull’immaginario, il senso del futuro, le speranze e le sensibilità dei più giovani: una sequenza di laboratori nelle scuole, con realizzazione di dipinti contenenti polvere di macerie del sisma, raccolte fondi destinate a corsi di formazione per guide naturalistiche, gare di sci alpinismo non competitive, attività didattiche e culturali rivolte ai singoli territori e modulate sui profili delle rispettive comunità.
Oggi quel muro è coperto dall’opera di Atoche, spalmata quasi sull’intero casolare in pietra. Un vero e proprio rivestimento pittorico, che ha ridisegnato il volume con toni decisi e figure imponenti: rosso fuoco, arancio, viola, blu scuro, tra grosse lumache, lucertole, fiori e una mano robusta che indica il cielo. In questo caso la direzione è opposta: non un intervento minimale, dalla fattura delicata, ma una presenza chiassosa, disarmonica, giocata sui contrasti e su un certo gusto fantasy, risolta con una pittura grezza, veloce.
LO SFOGO DI BELLOBONO. STORIE DI CROSSING E DI CONFLITTI
La reazione di Bellobono, dopo la tardiva scoperta della cancellazione? Un comunicato stampa e un post sul suo profilo Facebook, pieni di stupore e risentimento: “Che un’opera, situata in montagna in balia del meteo e del caso possa subire danni e vandalismi è cosa possibile fa parte della sua natura”, ma che venga completamente distrutta da un’artista senza alcun rispetto e sensibilità genera tristezza e rabbia. Anche se deteriorata, il suddetto artista non aveva alcun diritto di eliminarla, anche perché avrei potuto restaurarla. Sarebbe bastato contattarmi e confrontarsi con me, ma probabilmente il suo ego creativo fuori controllo non lo ha permesso. Quell’opera, realizzata anche con le macerie personali di molti, era per me molto importante e significativa”.
Lecita indignazione o reazione sproporzionata? La liturgia del conflitto e della prevaricazione è, in strada, cosa antica e scontata: sui muri dei quartieri e delle periferie di mezzo mondo sbocciano ogni giorno murales, graffiti, tag e disegni d’ogni sorta. Pezzi che nascono e muoiono a migliaia, consumati dal tempo, dalle intemperie, da mutamenti di natura urbanistica e architettonica. Cambiano le città, si consumano i giorni e le superfici, e cambiano così le scritture incise sull’intonaco. Cancellate, non di radio, dagli interventi di altri writer, di altri artisti. Crossare l’opera di qualcuno? Dipingerci sopra? Una storia tanto spiacevole, quanto frequente. E – quantomeno in origine, in ambito hip-hop – le regole sono implicite e tutte interne alle crew, alla comunità, ai codici condivisi. Eppure niente è più normale che vedere dissolvere un lavoro realizzato tra i vicoli, le piazze, i sottopassi.
Negli anni della Street Art divenuta linguaggio mainstream la faccenda si complica. E non è più così rara l’istanza di protezione (persino di restauro) per opere nate in seno a un sistema, che possiedono un valore economico identificabile, che si rapportano anche a musei e gallerie. In questa fase ibrida, nel passaggio tra la vecchia scena selvatica e la new wave istituzionalizzata, i conflitti si amplificano e restituiscono il senso di una mutazione endemica. Muri firmati da artisti di formazione accademica, legati all’art system ufficiale e avvezzi al lavoro in studio; regia e selezioni affidate a curatori; spazi pubblici che somigliano a musei; produzioni dall’alto con tanto di sponsor, investimenti di denaro pubblico e committenti istituzionali: porsi il problema della tutela, dell’autorialità, della mediazione didattica, in questo contesto non sembra più un fattore secondario. E intanto si fa ancora fatica a distinguere, a orientarsi.
PARLA L’ORGANIZZAZIONE DEL FESTIVAL: IL PROBLEMA DELLA TUTELA
Quel che è accaduto a Roccafluvione, probabilmente, è il frutto di questa confusione; di una certa leggerezza; e di un’assenza di mediazione professionale adeguata. Ce lo ha spiegato il vicesindaco Guido Ianni, ideatore del festival. “Angelo venne nel 2017 con i ragazzi dell’associazione Chiedi alla Polvere – un gruppo di giovani di Arquata del Tronto, il comune delle Marche più colpito dal terremoto del 24 agosto, N.d.r.– e dipinse su una piccola facciata del casolare. L’opera l’abbiamo protetta noi stessi con un fissativo e la nostra intenzione era quella di lasciarla in permanenza, come sempre facciamo”. Sfida ardua, visto il contesto: “La struttura è messa molto male, ha infiltrazioni importanti e le pareti sono piene di umidità. Andrebbe condotto un lavoro di restauro integrale, cosa che al momento non è in programma. E dunque la tenuta dei murales è molto relativa, praticamente impossibile: l’opera di Angelo Bellobono, nell’arco di due anni, si era fortemente scolorita, quasi non restava più niente. Noi non eravamo in grado di proteggerla o ripristinarla, lui non era mai venuto a ritoccarla. Si era naturalmente consumata, in relazione alle condizioni ambientali”.
Da qui la decisione di coprirla? “No, assolutamente”, ci risponde Ianni. “Quando con Atoche, nel 2018, abbiamo individuato altre facciate del casolare, gli abbiamo fatto presente che su una c’era l’opera di un altro artista. E abbiamo suggerito di non coprirla, nonostante si vedesse ormai pochissimo”.
Ed eccolo correre qui in soccorso dello street artist: “Sono sincero: noi non abbiamo sorvegliato, assorbiti anche dalle mille attività del festival; non presidiavamo il cantiere. E non abbiamo delimitato l’area con delle transenne. Quando sono arrivati gli studenti, ed erano tantissimi, Carlos ha distribuito i materiali, hanno iniziato il lavoro, la zona non era protetta, e controllare quell’enorme laboratorio non era facile. Siamo arrivati a cose fatte. Il suo progetto era comunque concepito per estendersi su tutto il volume dello spazio. Lui non ha nemmeno colpa. Avremmo dovuto noi essere più chiari: ma lo stato di degrado del muro ci ha condotti forse a soprassedere. Ci dispiace per Angelo, evidentemente abbiamo tutti affrontato la cosa senza ponderare troppo”.
IL FUTURO DEI MURALES E LE REGOLE DELL’ART SYSTEM
Al netto delle responsabilità di Atoche e dell’organizzazione, là dove un confronto con Bellobono sarebbe stato sacrosanto, il pensiero va a quelle procedure che, ad esempio in un museo, accompagnano la produzione e l’acquisizione di un’opera, la lettura critica di un nuovo progetto, l’impatto con l’architettura, gli accordi tra artisti, istituzioni, galleristi, collezionisti, in tema di tutela, valorizzazione, proprietà, assicurazione. Come rapportare tutto questo a un’opera che nasce e vive nel tessuto urbano, in luoghi precari, esposta alle intemperie e aperta ad altri interventi? Teoricamente c’è il rischio di una forzatura, uno snaturare e disinnescare il senso originario del lavoro in strada. Ma col mutare dei soggetti e delle dinamiche, occorre attrezzarsi.
Il progetto di Atoche era compatibile con la conservazione di opere preesistenti? Dal punto di vista curatoriale, sono state fatte delle valutazioni estetiche, anche in relazione al contesto? È stata discussa collettivamente l’eventuale cancellazione, per far spazio a nuovi lavori? Chi doveva occuparsi della tutela dei muri? Con quali fondi? Gli artisti coinvolti hanno dato indicazioni scritte sul destino da riservare alle loro opere? Conservarle, restaurarle o piuttosto lasciarle al proprio naturale deperimento?
Questioni non secondarie, con cui sempre più spesso occorrerà confrontarsi. Quando inizierà a deteriorarsi la selva di murales fioriti in questi anni di street art addiction, col coinvolgimento di amministrazioni, mecenati, fondazioni, big sostenuti da mega gallerie, la faccenda diventerà urgente. Quando qualcuno – a fronte di budget investiti e di progetti, più o meno validi, di riqualificazione e roconnotazione urbana – arriverà a sostituirli con nuove opere, il problema esploderà. E i famosi “musei a cielo aperto”, trasformatisi in musei-fantasma, chiameranno a un atto di responsabilità, o forse a una riflessione definitiva: qual è il senso e il posto della Street Art nel grande panorama dell’arte pubblica? Quali meccanismi e quali pratiche individuare, per un linguaggio che si muove ancora tra memoria di una old school underground, indomabile, ermetica, e una nuova macchina di produzione creativa, di taglio popolare, fortemente orientata alla decorazione urbana? Una macchina che rivela esperienze di qualità, magari con un alto tasso di engagement sociale – “Io sono futuro” ne è un esempio – ma anche una lunga serie di esempi scadenti, sciatti, al servizio di processi di gentrificazione e di narrazioni politiche ruffiane.
Scontri e dissapori, come quello esploso tra Bellobono e Atoche, raccontano in parte questa crisi. E suggeriscono il senso di alcune contraddizioni, figlie di un passaggio storico-culturale. “Quello che vogliamo fare adesso e che ci sembra sensato” conclude Ianni, “è invitare Angelo a realizzare un nuovo muro; e così chiederlo a Carlos. Ci piacerebbe che lavorassero insieme, a due opere distinte, ma relazionandosi. Sono entrambi due amici. Sarebbe l’epilogo migliore”. Con qualche accortezza in più, probabilmente.
– Helga Marsala
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