Ozmo a Rieti. Primo murale su un tribunale italiano: il sacro, il mito, la storia dell’arte
Bella prova per uno tra gli artisti italiani arrivati dalla old school del Writing, oggi maestro di quel muralismo urbano che si fa, nella complessità dei temi e dei linguaggi, arte pubblica di livello. Grazie a un progetto dedicato al territorio di Rieti, la facciata di un tribunale italiano diventa superficie pittorica.
Il rischio di retorica, leziosità, debolezza o forzatura è messo in conto, quando l’arte contemporanea si misura con la potenza dell’antico: che siano citazioni, rivisitazioni o veri e propri innesti tra opere, contesti, collezioni. La sfida è fra le più ardue e quindi fra le migliori. Una sfida che ben conosce Ozmo, al secolo Gionata Gesi, (Pontedera, 1975; vive a Parigi), maestro nell’arte di dipingere muri in strada, lungo i sentieri del mondo. Impermeabile alle etichette, capace di continui mix iconografici e intellettuali, Ozmo supera il vento prepotente della street art decorativa, l’imperativo dell’instagrammabile, il cliché dell’ex writer, del concettuale engagè o dell’illustratore disimpegnato. Uno che ha saputo muoversi tra i grandi musei, i centri sociali e le facciate dei quartieri metropolitani, tra iniziative indipendenti, committenze istituzionali, progetti per grossi brand. Uno che assomiglia solo a sé stesso, per fortuna. Ma che non smette di sperimentare.
TRACCE DI MEMORIA A RIETI
Giocoliere di segni, simboli, frammenti, Ozmo sa come affondare le mani nel ventre caldo della storia, estrapolandone miti e suggestioni, ricostruendo figure e scene arcaiche alla maniera propria, non escludendo il pop e nemmeno la nostalgia, la solennità e la leggerezza. E guardando alle grandi narrazioni, agli dei, agli eroi, ai reperti, ai simulacri, ai rituali di ieri e alle drammaturgie attuali.
Profilo perfetto per il progetto Trame – Tracce di memoria, ideato dall’Agenzia Creativa The UncommonFactory per la cittadina laziale di Rieti, nella regione storica della Sabina, e finanziato grazie a un bando della Regione Lazio, cofinanziato con i fondi europei per lo sviluppo. La curatrice, Annalisa Ferraro, lo ha voluto nella squadra di artisti invitati a dialogare con le memorie storiche e artistiche del territorio. E nel suo caso l’impresa è stata poderosa, per certi versi atipica.
Ozmo, a Rieti, ha dipinto il primo murale mai realizzato in Italia sulla facciata di un Tribunale. Si intitola Al suono delle trombe e giganteggia oggi su Piazza Bachelet, con tutta la monumentalità severa, eppure dinamica, dell’intreccio dei corpi e dei panneggi. Un racconto disteso sull’architettura lineare del novecentesco Palazzo di Giustizia, una modulazione solenne di bianchi, grigi, seppia, sapientemente non invasiva, senza contrasti aspri né arroganza. Il tema figurativo si aggancia al vuoto del piazzale e diventa piano cinematografico, pagina storica, avventura iconografica, teatro delle ombre e delle evocazioni.
STORIA DELL’ARTE E IDENTITÀ DEL TERRITORIO
Il soggetto è una libera interpretazione di due tesori rietini intrecciati: Il Giudizio Universale, affresco dei fratelli Torresani, gioiello dell’Oratorio di San Pietro Martire, e il cinquecentesco Ratto delle Sabine del Giambologna – scultura custodita nella Loggia dei Lanzi, in piazza della Signoria, a Firenze – forse la più celebre interpretazione di una vicenda mitica, che appartiene alla tradizione del luogo.
Nella serpentina delle figure centrali, avvitate, colte in un movimento ascendente che racconta l’aggressione e il tentativo di fuga, il dipinto simula la consistenza marmorea della statuaria classica e insieme restituisce il senso del dramma con la grazia immateriale della pittura. Sul fondo squilli di trombe e il momento austero della lettura del giudizio: porzioni dell’originale scena affrescata, privata del colore, mostrano schiere di angeli e santi, intenti a presiedere i destini dei probi e dei dannati. Folle di trapassati, in attesa della caduta agli Inferi o dell’annuncio di resurrezione.
E tutta la concentrazione di spasmo e di tormento, di terrore e invocazione, si raccoglie in questa melopea sacra, canto dell’altezza e della lentezza, che qui mescola il mito pagano e la scrittura biblica, la metafora narrativa e l’escatologia cristiana.
Ma non sfugge – grazie alla forza simbolica dell’inedita collocazione – il rimando necessario all’attualità: scorci di violenza e di sopraffazione, nella cronaca del delitto, e il tema eterno della giustizia, della responsabilità individuale e collettiva, del patto morale che fonda ogni comunità, lungo la linea provvidenziale del diritto.
– Helga Marsala
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