Street Art e Anni Novanta. Intervista a Pietro Rivasi

Com'era la Street Art negli Anni Novanta? A rispondere è il curatore indipendente Pietro Rivasi, che unisce a un approccio teorico anche una attività "sul campo" in quel decennio cruciale.

Pietro Rivasi (Correggio, 1978; vive a Modena) si appassiona al mondo delle arti urbane durante la prima metà degli Anni Novanta, quando inizia in prima persona a fare graffiti. Nel 2002, insieme ad alcuni amici, dà vita al festival Icone e dal 2008 svolge l’attività di curatore indipendente collaborando con artisti, gallerie ed enti pubblici, sia in Italia che all’estero.

Di cosa ti stai occupando ora? In che direzione va la tua ricerca?
Da alcuni anni, grazie al fitto scambio di idee con altri “teorici” e artisti come Jens Besser, Robert Kaltenhauser, Francesco Barbieri, Andrea Baldini e Collettivo FX, sto cercando di concentrarmi sull’utilizzo della documentazione della pratica come opera all’interno degli spazi espositivi e del mercato dell’arte. In sostanza, il ragionamento parte dal fatto che se si ritiene che il writing o la Street Art possano essere arte, allora questo riconoscimento deve avvenire rispetto agli originali fatti in strada. Quello che per la legge è vandalismo, può essere arte.

Esempi pratici?
È quanto succede con i lavori di Banksy da qualche anno a questa parte, che vengono protetti con plexiglas. Questo però è un caso unico e limite, al quale in qualche modo si è da poco affiancato quello di Blu. Due soli artisti in un panorama vastissimo; tra l’altro artisti che si esprimono in modo piuttosto “innocuo” dal punto di vista della società, realizzano in proporzione pochissimi lavori e tutti con una estetica decisamente “facile”. Inoltre, se non si prende in considerazione il discorso di staccare, decontestualizzando e snaturando totalmente quanto fatto in strada, questa pratica non dà comunque agli artisti alcuna possibilità di poter vivere delle loro opere: serve soltanto a sfruttare i dipinti murali come calamita per turisti.

Come vi muovete, concretamente?
Mi rendo conto che questo discorso possa apparire più un esercizio di retorica che altro, ma credo sia fondamentale per dare a chi proviene dal mondo del writing o della Street Art la possibilità di continuare a fare ricerca in quel contesto senza doversi per forza trasformare in un artista da studio. Ciò che stiamo quindi cercando di fare, con gallerie e istituzioni quando ce ne è la possibilità, è di lavorare con artisti che portino in questi spazi fotografie, video o documenti preparatori delle opere realizzate senza permesso nello spazio pubblico, un po’ come succede dagli Anni Sessanta per Land Art, Performance art, Fluxus etc.

Honet & Oliver Kosta Thefaine. Installation view at Caffè Concerto, Festival Icone, Modena 2002. Courtesy of the artists

Honet & Oliver Kosta Thefaine. Installation view at Caffè Concerto, Festival Icone, Modena 2002. Courtesy of the artists

Hai iniziato a occuparti di writing un po’ di anni fa. Raccontaci quando hai iniziato.
Ho iniziato a interessarmene grazie alle riviste di skate della fine degli Anni Ottanta, quando ero ancora piuttosto piccolo. Spesso si trovavano pubblicate foto di graffiti italiani o esteri. Sono sempre stato affascinato dall’idea di realizzare qualcosa nello spazio pubblico senza bisogno di chiedere un permesso e, appena sono riuscito a procurarmi qualche spray, ho iniziato io stesso a tentare di “scrivere”.

Era un writer?
Il mio primo pezzo fu una frase presa da Sfida il Buio, “Ciò che non ci distrugge ci rende più forti”, rimasto a meno di metà perché non avevo idea di quanto uno spray potesse consentirmi di dipingere, su una parete dell’oratorio che all’epoca frequentavo. Il parroco era illuminato e ci permise di usarlo. A proposito di permessi! Erano gli anni delle trasmissioni di Monney e Soneek Max su Radio Antenna 1 Rock Station, scoprii Isola Posse All Stars, Speaker Deemo, LHP e tutto il mondo che stava nascendo dagli squat e che ha generato la prima ondata di rap italiano. Tramite amici scoprii poi AL, che veniva venduto nei Foot Locker di Bologna e iniziai a capire la connessione tra writing, centri sociali, musica rap, punk e hardcore. Quegli anni hanno dato l’impronta a ciò che per me il writing è ancora oggi.

Cosa accadde poi?
Con il passare del tempo, era il ’94 credo, ho iniziato a scrivere in giro e ho preso coscienza del fatto che, per quanto le pareti che sceglievo fossero malridotte, la polizia e i vigilanti non avrebbe esitato a intervenire. Le prime multe sono state la seconda grande lezione che con il tempo mi ha portato a intraprendere un rapporto con le istituzioni e a maturare un approccio un po’ più discreto rispetto all’attività clandestina. Nel 1996/97 ho iniziato a gestire la rubrica sul writing di un portale finanziato dall’Emilia Romagna, stradanove.net, una cosa davvero innovativa a pensarci ora, e nel 2000 ho organizzato la mia prima piccola manifestazione di graffiti in città. Ce ne erano già state un paio nel ’94/’95 organizzate da due ragazze che poi sono sparite dalle scene. In una di queste erano ospiti Mastro K, Dohne e Kay One di Milano

Scratchiti video still. Courtesy of Moses&Taps

Scratchiti video still. Courtesy of Moses&Taps

Writing e Street Art sono la stessa cosa?
Street Art sono segni lasciati nello spazio pubblico senza permesso: vernice, installazioni, poster, adesivi, incisioni. L’amico Andrea Baldini sostiene che il writing sia la forma originaria e più radicale di Street Art, io ancora non ne sono certo, quello che è sicuro è che ci sono tantissimi writer che nel tempo sono arrivati a esprimersi tramite linguaggi diversi dal name-writing e che i “graffiti contemporanei” spesso sono difficilmente classificabili in modo univoco. Penso alla ricerca di Saeio, KR, Zelle Asphaltkultur, Moses e Taps. Indubbio è, anche a mio parere, che writing e Street Art possano a tutti gli effetti essere messi nel macro insieme dell’arte contemporanea: arte pubblica contemporanea.

Quali sono gli elementi che ti interessano maggiormente quando tratti di urban art? Questi aspetti sono cambiati rispetto agli Anni Novanta?
Attualmente l’aspetto che mi interessa maggiormente è quello performativo. Ritengo che writing e Street Art siano fenomeni fortemente connotati politicamente, a prescindere dalla consapevolezza degli autori. Non parlo dei contenuti sociali delle opere, ma di gesti intrinsecamente politici, in quanto mettono in discussione il concetto di spazio pubblico, proprietà, decoro, alcuni dei temi più discussi e delicati della nostra epoca. Ciò premesso, credo che una delle conseguenze più immediate sia leggere nell’atto performativo della realizzazione delle opere (che inizia molto prima del gesto pittorico, con l’organizzazione dell’azione, e termina soltanto insieme all’ultima opera che l’artista realizzerà senza permesso nello spazio pubblico in un futuro prossimo) il punto artisticamente più alto di questi fenomeni.

L’opera più interessante di arte urbana che hai mai visto sinora.
Proverò a fare due esempi: una delle opere di “arte urbana” più interessanti che abbia mai visto è il video No comment di Utah ed Ether presentato nella mostra Viral Vandals di Eindhoven nel 2017, che, insieme alla omonima fanzine, restituisce allo spettatore in modo potentissimo la volontà dei due artisti di dipingere, una volontà che non viene scalfita neppure dalla prospettiva di una sentenza di sei mesi di carcere e di rimpatrio coatto in una “casa” alla quale hanno rinunciato più di dieci anni fa, proprio per rivendicare la libertà di dipingere nello spazio pubblico senza sottostare ad autorizzazioni o permessi. Negli Anni Novanta semplicemente questo tipo di punto di vista non era preso in considerazione quando si pensava di tradurre l’arte di strada in qualcosa da proporre all’interno di uno spazio espositivo. Tutto era basato sulla singola opera pittorica, il 99% delle volte realizzata su supporti classici come tele o carte.

Il secondo?
Un altro progetto che trovo eccezionale in questo ambito è Padiglione in movimento. Un gruppo di artisti tra cui Shlomo Faber, Fino e Nexr, ha realizzato un “padiglione illegale” in occasione della Biennale di Venezia: il “Padiglione in movimento” appunto. Il gruppo ha studiato con cura gli orari dei treni che collegano la provincia di Venezia alla stazione di Santa Lucia e realizzato una serie di oltre venti interventi sui convogli con una vasta gamma di tecniche tra cui stencil, stampa serigrafica, spray, paste-up. Infine, ha recapitato l’invito per l’apertura del Padiglione, che riportava gli orari di arrivo dei treni dipinti presso la stazione di Santa Lucia, ai critici d’arte, ha incollato poster promozionali a Venezia e lasciato flyer del progetto in diversi luoghi della Biennale. Dalla documentazione del progetto Jens Besser ha realizzato una zine con serigrafia artigianale in tiratura limitata.

Olivier Kosta Thefaine logo tag. Festival Icone, Modena 2002. Photo courtesy of the artist

Olivier Kosta Thefaine logo tag. Festival Icone, Modena 2002. Photo courtesy of the artist

Quanto critici e curatori, accademici e studiosi possono essere utili alla Street Art?
Credo sia importante distinguere: Street Art e writing non hanno alcuna necessità di curatori o critici, né tanto meno di sciacalli improvvisati che cercano di racimolare soldi da amministrazioni e privati sulla pelle di chi scrive/dipinge; sono fenomeni spontanei che più o meno coscientemente si posizionano al di là delle leggi che regolamentano la società. Queste figure possono invece essere utili o danneggiare chi decide, per qualche motivo, di voler entrare con i suoi lavori anche nel sistema dell’arte inteso come mercato / gallerie / musei / collezioni ecc. La mancanza di un manifesto, di una storicizzazione condivisa, di strumenti di ricerca appropriati che permettano di ricostruire i percorsi degli artisti che vengono da questo mondo fa sì che spesso troviamo in mostre, gallerie o muri commissionati personaggi che non hanno praticamente rappresentato nulla per quel movimento, ma che vengono proposti solo e soltanto in quanto qualche “curatore” li definisce “street”. E questo ovviamente non solo falsa la storia, ma anche un mercato delicato e, almeno da noi, non ancora sviluppato, finendo con il danneggiare chi ha speso la vita intera, con enormi sacrifici, a creare le basi per cui oggi l’estetica urbana è così popolare.

Spiegaci meglio.
In sostanza, mostre più o meno sensate, eventi più o meno rispettosi di queste culture non incideranno gran che sull’attività di chi è interessato “solo” a restare per strada o sui treni, ma possono influire sul percorso di tutti gli altri che desiderano un dialogo con gli spazi istituzionali, con il mercato e i collezionisti. Vi è poi una questione negativa che colpisce tutti: l’esplosione della moda “muralista”, figlia della cosiddetta Street Art e dei primi festival ibridi, che anche io, mea culpa, ho contribuito a far sviluppare, sta diventando uno strumento sfruttatissimo per la propaganda delle politiche di decoro urbano e per esacerbare la repressione nei confronti di tutto quello che è libera espressione, soprattutto il writing. Questi eventi necessiterebbero di una regia che comprenda queste dinamiche, ma il più delle volte rispondo a interessi che di culturale hanno ben poco.

Almeno tre artisti (anche di altri campi rispetto alla Street Art) che ti hanno segnato e perché.
Sicuramente, essendo l’“urban art” quella che seguo maggiormente e da più tempo, i nomi che mi sento di fare sono relativi a questo ambito e credo di poter fare liste differenti a seconda dei periodi storici. Quando ho iniziato a interessarmi di graffiti, sono stato segnato principalmente dai writer bolognesi dei quali potevo vedere i “pezzi” dal finestrino del treno mentre andavo al mare o direttamente sulle fiancate dei treni. Successivamente, quando una parte del movimento del writing ha iniziato ad andare contro alcuni dei granitici dogmi dell’ortodossia newyorkese, sicuramente Honet e Stak, che hanno portato in Europa quelle intuizioni che Twist/Barry McGee, Revs & Cost e alcuni altri stavano sviluppando negli Stati Uniti già da alcuni anni. Arrivando al periodo più attuale, sicuramente coloro i quali stanno stravolgendo il rapporto fra strada e museo/galleria: Moses & Taps, Collettivo FX, Rage, Zelle Asphaltkultur, Boris e The Grifters.

Di un esordiente che si “approccia” allo spazio pubblico cosa ti colpisce?
Sempre restando in questo ambito, apprezzo e mi colpisce chi mette la sua intera esistenza in gioco per essere “up” nello spazio pubblico, uscendo decine di volte al mese per scrivere o dipingere, nonostante tutto e tutti. Servono coraggio, costanza, energia, fortuna: tutte qualità che, se messe al servizio di una sincera urgenza espressiva, non possono che generare con il tempo cose interessanti.

Progetti per il futuro?
Ci sono davvero tanti progetti ai quali ho collaborato ultimamente che stanno per vedere la luce: tre cose che possiamo anticipare sono l’uscita del libro monografico su Biancoshock a fine novembre e per il quale ho avuto l’onore di scrivere un testo, la mostra di Pablo Allison & Collettivo FX presso Vicolo Folletto di Reggio Emilia, che inaugurerà il 10 novembre, e la fiera di editoria sul writing Unlock che si terrà a Modena nel 2020.

Alessia Tommasini

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Alessia Tommasini

Alessia Tommasini

Sono veneta di nascita, ho abitato per anni a Roma e ora a Firenze. Mi sono laureata in Filosofia a Padova e subito ho cominciato a muovere le mie prime esperienze nel campo della creatività e dell'arte, formandomi come editor,…

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