Natura, luogo e Street Art. Intervista ad Alberonero
Il suo nome deriva da un periodo trascorso sulle vette del Trentino e l’instabilità è uno dei punti di forza della sua azione creativa. Alberonero si racconta.
Alberonero nasce a Milano nel 1991 e cresce nella pianura e nelle campagne di Lodi. All’età di quindici anni inizia a sperimentare i graffiti sviluppando uno stile pittorico personale, brutale e infantile. È un designer, nel 2013 completa i suoi studi al Politecnico di Milano. Realizza opere pubbliche e mostre in tutto il mondo, interviene in ambienti naturali e urbani con diversi media. Le opere nascono da un dialogo intimo con lo spazio, da una concezione dell’arte come elemento fondante del paesaggio, in termini poetici. Ha lavorato negli Stati Uniti, in Sud America, Asia e in numerose città d’Europa.
Da dove nasce il tuo nome?
Il nome Alberonero nasce nel 2010 sulle Alpi Lagorai. Un cammino di quattordici giorni tra le vette del Trentino durante il quale desideravo trasformarmi in natura. Gli alberi neri erano le ultime figure prima delle rocce e prima del cielo che si lanciavano verso l’infinito, secchi e spogli. Nude linee semplici dell’orizzonte simbolo di corpo naturale che volevo fortemente essere e diventare. Abitano la montagna e io con loro voglio abitarla. Alle volte mi sento solo natura e sono affezionato a questo piacere. La mia solitudine si consolava nella comunità degli alberi.
Quali tecniche utilizzi?
Le tecniche che prediligo sono quelle che incontrano lo spazio e le persone che lo vivono. Diciamo che produco pensando a cosa vorrei e vorrei che le tecniche potessero essere poco definibili. Punto a essere un artista plurale che si alimenta di conoscenze lontane dall’arte come strumento tradizionale e di mercato e come riferimenti di ricerca. Non mi piace la parola artista, voglio essere operatore visivo. Ora provo piacere a stare nei campi, a vedere la mia tecnica crescere con le conoscenze e gli stati d’animo del vivere quotidianamente la campagna. Ad esempio credo che bisogna utilizzare il gioco per trovare degli stimoli quando si lavora, per trovare sempre energia. Come i “binomi fantastici” di Gianni Rodari, occorre accostare cose lontane, apparentemente senza senso. L’atto creativo è un sentimento.
Come inizia il tuo lavoro?
Il lavoro inizia dal “levare”. Dal 2012 ho iniziato un esercizio tecnico del vedere: è con il virtuale che vedo la realtà, non ingabbio la realtà nel virtuale, nell’invisibile c’è una grande griglia, per questo il quadrato risulta dolce agli occhi.
Chi sono gli street artist che ti piace osservare?
Vogliamo veramente parlare di Street Art? Sinceramente non ci capisco nulla, ci sono solo tanti artisti che mi piacciono, ma come amo architettura, design, fotografia e poesia.
I lavori che stimo di più sono quelli che contengono una ricerca, un pensiero. Mi piacciono i lavori spesso indefinibili, i lavori che contengono una poesia visiva più vicina alla scienza, o al piacere dell’istinto, o al piacere dell’esercizio ossessivo. Mi piacciono le cose tanto belle e le cose tanto brutte. Guardo le città, la fotografia e la natura.
La Street Art è…
Probabilmente nulla. O probabilmente solo la moda di dire Street Art ancora una volta. Non penso ci sia necessità di star qua a definirla perché non saprei farlo nel modo giusto, lascio stare e faccio quello che sento. Sinceramente non ne posso più, è come se si tornasse sempre indietro.
Quali messaggi vorresti che le persone percepissero quando incontrano una tua opera?
In questi ultimi anni sto lavorando molto chiedendomi: cosa vediamo? Mi piacerebbe che un mio lavoro potesse aiutare a mettere in dubbio quelle convinzioni visive e piccolezze che quotidianamente ciascuno di noi sente come certe e sicure. Vorrei alimentare il piacere del sentirsi fragili, alimentare la riduzione di coordinate, alimentare l’alterazione del nostro stato d’animo. Vorrei che si sentisse la luce, il bianco come vorrei che si sentissero il vento e la terra. Sono focalizzato sulla costruzione di percezioni attraverso la costruzione del paesaggio e la costruzione di luoghi temporanei e la costruzione di noi con il luogo.
Vorrei che le persone sentissero la libertà di farne una comprensione e una visione personale, l’incontro si basa su ciò che potrebbe essere. Penso che oggi non riusciamo a leggere quello che vediamo, dobbiamo imparare a vedere e spero che il mio lavoro suggerisca un modo di vedere. Il mio lo ritengo un lavoro più tecnico che pratico, ma la poetica è un mezzo per svilupparlo. L’obiettivo è esaltare quello che possiamo percepire alterandolo. Supernaturale, ad esempio, significa agire senza modificare realmente, mettersi a disposizione di quello che si vede e di quello che si sente.
C’è una tua opera alla quale sei particolarmente legato?
Sono legato a numerose opere che per diversi motivi rappresentano i vari passaggi della ricerca di questi anni. Se ripenso alle singole opere, mi passano davanti i vari cantieri, le albe di fotografie, le difficoltà e il piacere, quindi mi focalizzo non sull’opera in sé ma sull’opera con ciò che insieme a me la definisce, la sua vita e i miei sentimenti.
Penso anche che ogni opera possa essere letta come tempo: il tempo da cui deriva, amico del tempo a cui appartiene, amico del tempo di concepimento. Il tempo del processo, quello della realizzazione e quello della conclusione. Il tempo della comprensione, il tempo della memoria, il tempo della sua assenza. Più che a un’opera sono legato all’esercizio che applico all’osservare, che anticipavo prima, a ciò che definisco come mio ordine: la griglia.
Qui cito tre punti del processo che metto in atto mentre cerco di sviluppare un’attitudine al guardare: 1) non pensare veramente a quello che si vede; 2) pensare alle cose nella loro unità intrinseca; 3) l’immedesimazione: diventare il prossimo, essere fuori di sé, essere l’altro, vedersi da fuori mentre si fa.
Come sta evolvendo, secondo te, la Street Art rispetto a quando hai iniziato?
Probabilmente lo sai meglio tu di me: tutto si muove. Mi piace guardare sempre avanti, proiettarmi in qualcosa che non conosco e proiettarci dentro i miei amici con me. Sottolineo gli amici perché la cosa più bella di questi anni senza dubbio è stata quella di fare comunità con questo mestiere, nel viaggio con i luoghi e nell’esperienza con le persone. Da tutto questo minestrone bisogna uscire con azioni nuove, bisogna essere gruppo di evoluzione e sviluppo. Comunità d’azione.
Progetti per il futuro?
Voglio essere tanti luoghi. Penso che la chiave di chi progetta sia diventare quel luogo.
Ora sono in Arabia, poi vedremo. Il mio atto creativo è instabile, quindi ogni giorno mi domando se faccio quello che voglio, questo mi aiuta a rimanere a bolla. La risposta spesso me la dà l’esperienza.
‒ Alessia Tommasini
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