Street artist e bibliotecaria. Intervista a Vera Bugatti

Esperta di street painting anamorfica, Vera Bugatti si divide fra la pittura da strada e l’impiego di bibliotecaria. E qui riflette sul senso della Street Art.

Bresciana, classe 1979, Vera Bugatti ha conseguito la laurea in Conservazione dei beni culturali a Parma, ha lavorato come ricercatrice e in ambito museale e bibliotecario.
Le sue opere sono presenti nei volumi Sidewalk Canvas di Julie Kirk Purcell, Londra 2011; Street Art di Russ Thorne, Londra 2014; The Art of Chalk di Tracy Lee Stum, USA 2016; Street Art en Europe di Nath Oxygène e Brigitte Silhol, Parigi 2018; Designing graphic illusions, Cina 2019.
Attiva dal 2008 ed esperta di street painting anamorfica dal 2015, ha dipinto in Italia, Olanda, Francia, Germania, Irlanda, Croazia, Austria, Malta, Svezia, Danimarca, Bosnia ed Erzegovina, Portogallo, Spagna, Lettonia, Russia, Gran Bretagna, Bulgaria, Belgio, Stati Uniti, Messico, Emirati Arabi e India.

Ci parli del tuo ultimo lavoro?
Vi racconto di DE(ath)HORNING, dipinto a Bromolla, in Svezia, presso la Ifo Center Outdoor Gallery, e dedicato al tema della decornazione chirurgica dei rinoceronti. Una delle strategie (soluzione a breve termine ma ormai ampiamente diffusa) per proteggere questi stupendi ungulati dal bracconaggio è la rimozione periodica del corno, che sul mercato nero arriva a fruttare fino a 95mila dollari/Kg. La domanda viene dai Paesi del Sudest asiatico, in particolare dalla Cina, dove il corno polverizzato è ritenuto ingrediente miracoloso per le preparazioni tradizionali destinate a cure mediche o è considerato un afrodisiaco. Tutte e cinque le specie di rinoceronti esistenti al mondo sono fortemente a rischio di estinzione e la pratica della decornazione ha consentito la difesa di centinaia di esemplari. Nonostante ciò, solo l’idea dell’amputazione come metodo salvifico evoca un senso di brutalità. Ci ostiniamo a tamponare, con i nostri metodi, laddove abbiamo già danneggiato irrimediabilmente l’ambiente e gli animali.

Che cosa hai voluto comunicare con la tua opera?
Nel dipinto il rinoceronte a destra, morente, ci interroga. A sinistra uno strano rinoceronte alato (una sorta di chimera. Come possiamo pensare un rinoceronte privo del corno?) si libra nel vuoto ma è trattenuto a terra da una strana corda/catena rosata che nasce dal bavero medicamentoso e termina in un pesante e rigido oggetto che somiglia a un palloncino. Il cielo è assente, si è mutato in un groviglio color ottanio che toglie il respiro.
Al centro una donna non più giovane, sibilla dallo sguardo altero, mostra un coltello. Può decidere se amputare altri corni o recidere la corda che rende prigioniero il rinoceronte volante. Il titolo dell’opera, attraverso un gioco di parole, rimanda alla morte. Non esiste soluzione pacifica a un nodo gordiano.

Vera Bugatti, Trust in a New World, Dubai 2017

Vera Bugatti, Trust in a New World, Dubai 2017

Se dovessi raccontare la tua tecnica e il tuo stile, cosa diresti?
Non sono realmente in grado di definirmi a livello stilistico. Quando me lo chiedono mostro qualche immagine e dico: “decidi tu”. Figurativo, d’accordo, ma c’è chi lo descrive come surreale, onirico, chi lo avvicina al Realismo magico, chi al sacro, al panteismo, chi ne percepisce la vena malinconica, chi trova ogni mio pezzo inquietante, disturbante. Mi piace pensare che possa essere contemporaneamente un riflesso di tutte queste cose.

Sembra esistere un filo conduttore che unisce le tue opere, ce ne vuoi parlare?
Un filo rosso lega nei miei pezzi turbamenti umani a temi sociali e alla vivibilità (invivibilità) del pianeta. Malinconia e speranza, inoltre. Traccio elegie inquiete del tempo.
Mi concentro sull’individuo e sulle componenti di un’identità spesso frammentata. Ne nascono opere stranianti, dalla spazialità volutamente errata. Questa poetica, declinata in ambiti diversi, si rintraccia in tutta la mia produzione artistica: dai bassorilievi in fil di ferro e chiodi ai Mondi novi racchiusi dalle mie scatole ottiche fino alle storie raccontate attraverso le anamorfosi a motore elettrico dei Teatri della Memoria, piccolo omaggio al mondo del pre-cinema. Mi rendo conto di non riuscire a raggiungere con forza la critica sociale che vorrei esprimere. Credo di essere ancora troppo ingombrante all’interno delle mie opere. In quelle scatole, in quei muri sezionati, in quei volti rugosi che interrogano, in quei bambini disperati che piangono, negli animali, nelle teratologie, ci sono sempre io.

Cosa significa Street Art per te?
Un poliedro complesso che ogni tentativo di circoscrivere priva di importanti e inediti aspetti. Più che una definizione univoca sarebbe necessaria un’opera di distinzione fra Street Art, Urban Art, graffiti, writing, arte urbana.
Se si parla di arte pubblica non autorizzata, il campo si restringe, ma a mio parere il recente dinamismo che sta interessando il fenomeno lo rende ancor più eterogeneo e distante dal primo graffitismo a sfondo sociale. La Street Art rischia di non rappresentare più una controcultura, entra in cortocircuito con il calderone variegato e incontrollabile dei social, viene venduta spesso come riqualificazione urbana e senza la dovuta attenzione al messaggio contenuto nelle opere. Molto è cambiato quindi, e la mia storia inizia proprio a posteriori ma, soprattutto, senza il suddetto pregnante background. In questo senso sono un’outsider. Per questo riferisco ai miei pezzi con il termine di arte urbana e mi piacerebbe ancor più parlarne come di arte contemporanea (non è forse questo in fondo?).

Vera Bugatti, Save the Baby Duck (con Carlosalberto GH), Krefeld (Germania) 2015

Vera Bugatti, Save the Baby Duck (con Carlosalberto GH), Krefeld (Germania) 2015

Perché ti sei avvicinata alla Street Art?
Pochi pezzi illegali (fra l’altro degli ultimi anni) non fanno di me una street artist.  Parliamo quindi di arte urbana, muralismo, street painting, narcisismo, ordinaria follia, quello che preferite. Non ho iniziato a dipingere in strada facendo writing negli Anni Novanta, come molti artisti che conosco. In quel periodo disegnavo poco (e solo per me) e scrivevo molto. Poi mi sono iscritta a Lettere e pensavo a un futuro come ricercatrice nell’ambito della storia moderna, aspirante tuttologa con la testa fra le nuvole.
A oggi la mia casa è piena di libri e sono una bibliotecaria da quattordici anni. Anche i libri, come l’arte, sono mondi di spessore infinito. Il primo assaggio di ‘strada’ è passato attraverso l’arte madonnara, sono rimasta realmente affascinata dalla sua vocazione effimera. Era l’estate del 2003 e stavo preparando la tesi di laurea sull’eresia e le arti figurative nel XVI secolo, altra grande passione.
Una vocazione adulta, si potrebbe dire. Il mio primo disegno su asfalto è stato una copia di Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Ogni colpo di vento valeva una manciata di colore tolta e una di polvere aggiunta, la pioggia diventava un flagello, le dita facevano male. Titubante, sono stata accolta da persone speciali e ho vissuto per alcuni anni esperienze indimenticabili in giro per l’Europa. L’esigenza immediata di creare soggetti personali e comunicanti (quanto sono pesante, lo so, con questa storia del significato) mi ha portato poi a sperimentare e i pezzi sono diventati complessi e allungati fino a quanto serviva per vederli emergere da terra e ancora più fino al punto di non essere ‘fotografabili’.
Gli amici li chiamavano affettuosamente 2Dpunto7. Non vere illusioni tridimensionali quindi, ma qualcosa che ci si voleva avvicinare sempre di più.
Così ho cominciato con la vera street painting anamorfica e continuo a dedicarmici oggi. Lo vedo come uno strumento in grado di conferire maggior impatto al messaggio delle mie opere.

Come pensi venga recepito dalle persone?
Mi chiedo spesso cosa percepiscano gli altri. Se colgano le citazioni all’interno dei pezzi, se leggano i testi (sono prolissa, ovviamente) che li descrivono, se capiscano i giochi di parole dei titoli. Il fatto che semplicemente si facciano delle domande, che non siano d’accordo, che si muova qualcosa, già mi soddisfa. Non pretendo troppa attenzione, sono un granello di sabbia nel deserto. Se però quel granello insieme ad altri disegna delle vie, allora ha un fine.
La creazione di un’opera d’arte, in un mondo di alibi, è una responsabilità etica. Dovrebbe distinguersi dal frastuono visivo in cui siamo immersi.

Ora che cosa ti piacerebbe esplorare? Cosa ti piacerebbe dipingere e interpretare?
In questi ultimi anni mi sono orientata su grandi pareti, mossa anche dal desiderio di creare qualcosa che potesse resistere nel tempo, dopo almeno quindici anni di opere effimere. Forse per un desiderio di memoria a lungo termine. Parlo spesso di transitorietà nei miei lavori. Ora la percepisco profondamente, anche attraverso l’attività onirica (mio forziere creativo). Il 2019 è stato un annuus horribilis dal punto di vista della salute e mi ha messo a dura prova. Non volevo più dipingere. Bloccata rispetto ai grandi progetti, ho desiderato creare qualcosa di intimo e catartico. Così ho disegnato dei pezzi monocromi dedicati a luoghi abbandonati, specialmente un grande edificio che avevo trovato tanto suggestivo da rimettere in moto il mio cervello (potrei anche dire cuore) imbambolato. Opere dedicate alla salute mentale ma in fondo autobiografiche, una piccola terapia per me stessa.

Vera Bugatti, Le celle sono il luogo più doloroso, luogo abbandonato 2019. Photo Matteo Mazzoli

Vera Bugatti, Le celle sono il luogo più doloroso, luogo abbandonato 2019. Photo Matteo Mazzoli

Ci fai qualche esempio?
Il pezzo Non ne so di più di quest’opera di colui che la legge con attenzione, un mezzo busto di vecchia in rosso con la testa in guisa di Medusa e mani che sembrano guanti sgualciti. Ora campeggia in una stanza in disfacimento sopra un letto d’ospedale. Il monito è nel titolo, citazione da Beckett (quando gli domandarono spiegazioni circa il suo Godot).
Oppure Disease, pezzo dedicato al cambiamento climatico e a mutamenti impercettibili, opera presente in identici esemplari specchianti posizionati sopra quattro sedie in un’onirica e abbandonata sala d’attesa.
Infine la bambina sospesa di Le celle sono il luogo più doloroso, metafora di un pneuma a metà fra il salvifico e il grottesco. Trattiene uno strano e inesistente pesce terrorizzato mentre il letto del suo fiume vomita spazzatura. Fluttua nella sua cella verde, accanto a una sedia a rotelle guasta, mentre l’edera invade la stanza sfondando la finestra.

Quali tecniche utilizzi?
Per quanto riguarda l’arte urbana, riporto la mia bozza sul muro con la tecnica della quadrettatura (filo e nastro adesivo o bindella e pigmento). Dipingo con i pennelli lunghi e piegati da radiatore perché mi consentono di stare a distanza e lavorare a tratteggio (non sfumo mai). Mescolo i colori (idropitture) direttamente a parete quindi sul cestello mi servo di tanti contenitori (o bottiglie tagliate legate insieme) con colori puri non molto diluiti. Ho una predilezione per il nero e il giallo (quindi nascono sempre riflessi verdi). Non uso praticamente mai il bianco puro.

Come avviene il tuo processo artistico?
Sono lenta nell’ideazione e, mancando di una seria formazione sul disegno, cerco di colmare le mie lacune passo passo. Una volta pensato a ciò che voglio raccontare, ma a grandi linee, apro la scatola degli orrori. Mi spiego meglio. Ritaglio e seleziono da anni teste, occhi, nasi, tante mani, piedi, acconciature, corpi interi, oggetti, espressioni, animali, colori. Scelgo alcuni ‘pezzi’ e li unisco con il nastro adesivo (ora anche a computer, molto tardi, ma mi sto evolvendo) finché non comincia a uscirne qualcosa (sarebbe meglio dire qualcuno!) e alcune parti restano piatte (quelle le integrerò ma all’inizio mi interessa l’impatto delle figure). Quindi comincio a copiare a penna nera il personaggio creato sistemandolo dove stride, aggiungo altri elementi che a volte disegno a parte (spesso animali) e tento di aggiungere e modificare le ombre. Alla fine avrà un nome! I miei personaggi sono un po’ dei piccoli Frankenstein. Forse per questo mi ci affeziono tanto.

Vera Bugatti, Aut Aut, Brescia 2019. Photo Andrea Zampatti

Vera Bugatti, Aut Aut, Brescia 2019. Photo Andrea Zampatti

Ci racconti qualche aneddoto particolare che ti è accaduto durante uno dei tuoi lavori in strada?
Aneddoti ce ne sarebbero, ma vi racconto una cosa buffa che mi ha colpita e portata a riflettere. Mentre dipingevo la gigantesca figura di Aut Aut a Brescia, all’interno del festival Link, le reazioni dei passanti erano le più disparate. A un certo punto un tizio domanda: “ma l’opera è permanente?”. Io rispondo: “sì, certo”. Lui dice: “ah, peccato”. Quasi volo fuori dal cestello. Mi ha spiazzato, ma anche fatto ridere. Dopo anni di persone tristi perché le mie opere andavano scomparendo, questo era scontento all’idea di trovarsi davanti l’enorme vecchia signora per anni. L’ha vissuta come un’imposizione. Alcuni poi si lamentavano perché avevo dipinto una persona anziana. Touché: ai vecchi non piacciono i vecchi. Io non ci avevo minimamente pensato! Un’opera quindi che per me era un totale omaggio alla saggezza è diventata un fastidio per qualcuno. La prova l’ho avuta due mesi dopo, passando a trovare 108 che dipingeva il secondo muro del festival. Mi domandavo come avrebbero reagito i residenti di fronte a un pezzo astratto. Arriva subito un signore, guarda l’opera esclamando “non è possibile ogni mattina dovrò vedere questo disegno tutto nero”. Poi fa una pausa e chiude: “certo, beh, piuttosto della vecchia!”. Io trattengo la risata.
Ma quanto fa paura la vecchiaia?

Progetti per il futuro?
Oggi non è possibile sbilanciarsi, per tutto ciò che sta accadendo, a causa della pandemia.
Mi piacerebbe pensare a nuovi interventi in luoghi abbandonati, significanti per me, qualcosa di discreto e curativo. Perché sono a un bivio. Dopo dieci anni di viaggi meravigliosi e sfiancanti, è come se avessi bisogno di assaporare la lentezza e le brevi distanze. Dopo quattrocento voli e corse contro il tempo (per essere settimanalmente operativa e bifronte in biblioteca 3 giorni e sul cestello gli altri 4) sono crollata. Come se non avessi più niente da dire, impotente davanti a un mondo che sta dando il peggio di sé.
In futuro, pensando a progetti artistici, vorrei viaggiare in treno e impiegare un tempo ‘umano’ per arrivare sul posto, guardando fuori dal finestrino, in spiccata e ostinata controtendenza con l’oggi! Nel frattempo disegnare e leggere, soprattutto aspettare, attendere l’inatteso (e l’assurdo, quello poi sarebbe magnifico!).

Alessia Tommasini

http://www.verabugatti.it/

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Alessia Tommasini

Alessia Tommasini

Sono veneta di nascita, ho abitato per anni a Roma e ora a Firenze. Mi sono laureata in Filosofia a Padova e subito ho cominciato a muovere le mie prime esperienze nel campo della creatività e dell'arte, formandomi come editor,…

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