Aravani Art Project: street art e murales per dare voce alla comunità transgender indiana
Nato nel 2016 a Bangalore, il collettivo Aravani Art Project coinvolge donne, transessuali, persone non binary e queer in progetti di Public Art e Wall Painting. Giulia Ottaviano ha incontrato la fondatrice del progetto Poornima Sukumar e Shanti Muniswamy, una delle artiste transgender che ne fa parte.
Non lontano da Indiranagar, uno dei quartieri più prestigiosi di Bangalore – famoso soprattutto per i suoi ristoranti e locali frequentati da giovani indiani ed expats –, si trova lo studio dell’Aravani Art Project. Al primo piano di una casetta color carta da zucchero Poornima Sukumar sta per concludere una riunione con il suo team, e dalla finestra mi invita ad aspettare qualche minuto. Resto seduta sotto un albero mentre una signora che vende limoni, cipolle e coriandolo dall’altro lato della strada mi fissa in cagnesco. Quando le sorrido il suo sguardo finalmente si rilassa e mi fa segno di avvicinarmi. Con la mano le rispondo con il gesto di così-così, che qui vuol dire invece no-grazie. La signora non ha quindi più motivo di restare lì, imbraccia il suo carretto e si dirige verso la strada maestra, cantilenando qualcosa in kannada che presumibilmente vuol dire: limoni, cipolle e coriandolo.
“Sto andando a comprare del chai per le ragazze. Ne vuoi uno?”
Poornima mi coglie di sorpresa alle spalle, si presenta frettolosamente stringendomi la mano. Io rifiuto la sua offerta – perché il tè con il latte proprio non mi piace – e su suo consiglio resto ad aspettarla nello studio. Le scarpe, come sempre, le lascio fuori dalla porta d’ingresso, insieme a un’altra dozzina di infradito e ciabatte.
Lo spazio è colorato e accogliente. Ci sono girandole e piante, dappertutto fotografie scattate durante i lavori in corso di qualche murale. Ce n’è una in cui tre artiste tengono in mano i pennelli colorati; per un istante li confondo con i ghiaccioli. Il pavimento è in graniglia, come spesso si trovava in Italia nelle case dei parenti più anziani.
Dietro una porta chiusa – di tanto in tanto esce qualcuno, si riempie un bicchiere d’acqua nel cucinotto e torna dentro – le ragazze del collettivo stanno guardando sul computer la registrazione di uno spettacolo teatrale nel quale hanno recitato. Di tanto in tanto, scoppia una risata che attraversa la porta chiusa.
Quando Poornima rientra le chiedo ciò che più mi preme, cioè se hanno in programma un murale in città. Vorrei vedere il collettivo all’opera, salire magari anch’io, per aiutare a dipingere qualche triangolo di colore, sulle impalcature di bambù.
“Ultimamente siamo state impegnatissime. Devi sapere che questa è ormai la mia famiglia oltre che il mio lavoro, e ciò vuol dire che non ho più alcuno spazio personale. Ho deciso che adesso ci prendiamo una vacanza… Quindi no, mi dispiace, al momento non abbiamo niente in programma”.
IL LAVORO DI ARAVANI ART PROJECT
Poornima lavora per anni nel mondo delle ONG. Nel 2016 entra in contatto con la comunità transgender di Bangalore e da allora decide di imbastire un progetto dedicato a loro. In India, infatti, le donne trans sono fortemente marginalizzate e la maggior parte è costretta a prostituirsi o a chiedere l’elemosina per strada. Difficilmente vengono assunte in contesti regolari.
“Ogni progetto che noi realizziamo è retribuito, tramite sponsor, collaborazioni o bandi. In parte è anche questo l’obiettivo del progetto, riuscire a dare alle artiste transgender un introito. Ma io non posso sapere che cosa succede nel momento in cui escono da questo studio, tra un progetto e l’altro. C’è ancora moltissimo da fare in India. Ma è così anche nel resto del mondo…”
Poornima ha dei modi di fare piuttosto bruschi. È forte e risoluta, come sono spesso le donne indiane che hanno deciso di non rispettare il canone imposto dalla cultura locale che le vedrebbe solo madri, in saree, con una lunga treccia fino al sedere. Insieme all’artista Sadhna Prasad, art director del progetto, ha ideato uno stile molto definito per i murales, uno stile geometrico che permette di far partecipare tutti ai progetti, anche chi non ha nessuna competenza artistica.
Negli anni l’Aravani Art Project è riuscito a coinvolgere le comunità transgender di Delhi, Coimbatore e Chennai, così come i bambini dello slum di Dharavi e le sex worker di Sonagachi, il quartiere a luci rosse più grande di tutta l’India, che si trova nel cuore di Calcutta e dove vivono, in pessime condizioni igienico-sanitarie, oltre 1100 donne impegnate nell’industria sessuale. Le opere dell’Aravani Art Project hanno titoli e soggetti che rispecchiano l’obiettivo del progetto:
Who am I? Know me! I exist…
Naavu Idhevi (We exist)
We also have dreams
Indru Namadhai (Today belongs to us)
In un sottopasso trafficatissimo di Bangalore un enorme dipinto raffigura un donna transgender con i segni della peluria sul viso. Per raggiungerlo cammino tra i rickshaw, le moto e gli autobus che sfrecciano instabili lungo la carreggiata, spazzatura e detriti di ogni genere. Sono in molti gli automobilisti che rallentano per guardarmi, e altrettanti sono quelli che girano il collo poco più avanti, per osservare l’opera che io non ho ancora potuto vedere.
A Chennai, un alto palazzo riporta su una delle facciate il volto di Tara, una prostituta di 28 anni che fu trovata una mattina di novembre vicino a una stazione di polizia con il 90% del corpo coperto da ustioni (e che pochi giorni dopo è morta in circostanze tutt’ora poco chiare).
L’opera si chiama Manidham Malarattum, in Tamil vuol dire ‘Lasciate che l’umanità fiorisca’ ed è un tributo alle vite coraggiose – come quella di Tara – che non sono andate perdute invano, e per le quali si continua a chiedere giustizia.
L’IMPORTANZA DI UN MURALE
“Un murale non è come una manifestazione, una fiaccolata, un articolo su un giornale” – mi spiega Shanti Muniswamy qualche giorno dopo – “un murale è davanti agli occhi della gente, e ci rimane per molto tempo. Il compito di un murale è ricordare a tutti, costantemente, quanta oppressione e discriminazione continua a esistere nei confronti delle persone transgender”.
Occhi neri e rossetto fucsia, Shanti, di fronte al murale di Freedom Park di Bangalore, continua a raccontarmi: “Per prima cosa vorrei dire che io sono fiera di essere, prima di tutto, un’artista. Poi certo, sono anche una transgender. Ma per me l’arte è importantissima. Non solo la pittura… Io mi occupo, per il progetto Aravani, anche dei contenuti. Scrivo poesie, il blog, e da qualche tempo sto lavorando anche a una serie di ritratti di persone transessuali appartenenti a diversi gruppi. Per esempio le Jogappa, una sottocultura presente nel nord del Karnataka. Sono musiciste molto talentuose. Se cerci su YouTube puoi sentire la loro musica”.
Shanti è nata e cresciuta a Bangalore. Parla perfettamente inglese e ha meravigliosi capelli lucidi e una risata che esplode all’improvviso e di cui, portandosi una mano alla bocca, sembra stupirsi ogni volta.
“Ti racconto un po’ di questo murale, perché per me è molto importante. Anche se l’abbiamo fatto qualche anno fa, appena lo vedo mi ritornano in mente emozioni fortissime”.
Ci sediamo ancora una volta sotto un albero, per proteggerci dal caldo secco di una giornata di inizio gennaio. “I lavori per questo muro sono cominciati quindici giorni dopo la mia operazione di riassegnazione di genere. Ho trascorso giorni in ospedale da sola e poi in casa. Sono stati giorni tremendi in cui i miei unici amici erano gli scarafaggi, le formiche e i topi che mi venivano a trovare in stanza di tanto in tanto… Poi Poornima una mattina mi ha mandato un messaggio, ha scritto: ‘Facciamo un murale fuori dal Freedom Park. Vieni’. Io allora mi sono fatta forza e sono venuta qui”.
Shanti indica un punto preciso del murale.
“Qui c’erano due scale. Su una scala c’era una mia amica, Purushi, anche lei è transgender, e qui per terra tutti i colori. Io indossavo ancora un assorbente, ero debole e sanguinavo, ma nel momento in cui ho cominciato a dipingere ho dimenticato ogni cosa, il dolore, la sofferenza… Ho dimenticato tutto! Mi capita sempre quando mi dedico all’arte, mi dimentico del colore della mia pelle, del mio genere sessuale, di chi sono. Rimane solo l’arte”.
Non trattiene l’emozione e la gioia mentre mi racconta di quella giornata per lei indimenticabile. Una grossa scritta nella lingua locale recita: ‘Anche noi sogniamo’. Chiedo a Shanti di spiegarmi cosa significa per lei.
“Per strada, sugli autobus, ogni giorno, ovunque, le persone ci guardano come se fossimo alieni, come se venissimo da un altro pianeta. Io mi chiedo: è perché non sono abbastanza femminile? Perché mi fissano? Cos’ho di diverso? Sono forse brutta? Il messaggio di quest’opera è ricordare a tutti che noi siamo esseri umani, proprio come tutti gli altri, e come tutti gli altri noi abbiamo un cuore e dei sogni. La nostra comunità intera ha un cuore e sogna…”.
DAL MITO ALLA CONTEMPORANEITÀ
Lo stile geometrico, fatto di triangoli, cerchi, figure chiare e colori accesi permette a chiunque di partecipare agli eventi. È come un album da colorare collettivamente.
“In questo modo comunità locali possono interagire con noi. Le persone possono dialogare, parlare, farci delle domande. A volte basta davvero poco. ‘Ti piace il colore rosso?’; ‘Dove hai comprato il tuo saree?’. In questo modo le persone smettono di avere paura di noi, di guardarci male, perché cominciano a conoscerci e a capire che non siamo diverse. Se mi fai un taglio qui, sul braccio, non esce forse anche a me il sangue?”
Mi resta solo da capire da dove viene il nome del collettivo. Aravan è un personaggio per così dire ‘minore’ (e presente solo in alcune versioni) dell’intricato poema epico Mahabharata. Aravan è un guerriero, figlio dell’eroe Arjuna, che decide di sacrificarsi alla dea Kali sul campo di battaglia, così da assicurare la vittoria alla sua gente. Per essere però cremato – all’epoca gli scapoli venivano sepolti – deve trovare moglie, ma nessuna donna, sapendo il destino al quale va incontro Aravan, è disposta a farlo. Interviene quindi la divinità Krishna che, sotto le sembianze del suo avatar femminile Mohini, sposa Aravan e con lui trascorre la prima e ultima notte di nozze.
Aravan con il tempo è diventato oggetto di culto per le comunità transgender indiane che ogni anno lo celebrano durante un famoso festival religioso del Tamil Nadu, nel quale impersonano la vedova Mohini. Disperate per la perdita del marito, si strappano dai polsi i bracciali e piangono la morte dell’amato in un rito collettivo.
‒ Giulia Ottaviano
https://aravaniartproject.com/
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