Carne, lo street artist dell’abbandono
La sua ricerca lo connette all’ambito del post-graffitismo e affonda le radici negli spazi abbandonati e nel contrasto fra il bianco e il nero. Lui è Carne e lo abbiamo intervistato.
Classe 1985, esponente del post-graffitismo italiano, in attività dal 1999, Carne ha dipinto e collaborato con numerose realtà lungo tutto lo Stivale e oltre confine. Tra i partecipanti a diversi festival internazionali legati all’arte urbana, ha dato vita al progetto noise Compiuta Resonance. Il suo percorso artistico, strettamente legato agli spazi abbandonati, lo ha portato a essere uno dei pionieri dell’Urbex-Art italiana. Attraverso un profondo lavoro di introspezione e ricerca personale, negli anni ha codificato uno stile e linguaggio visivo unici, fortemente connessi all’astrattismo russo e all’arte alchemica. Geometrie e gestualità e il bianco e nero fanno del contrasto visivo il perno della sua ricerca estetica.
Ci puoi raccontare del tuo ultimo lavoro sul post-graffitismo?
Il progetto a cui sto lavorando da tempo e che prende il nome di Totalitarismo delle Rovine più che riguardare il post-graffitismo riguarda ciò su cui il post-graffitismo mi ha costretto a riflettere, ovvero gli spazi abbandonati in cui mi sono spinto per sviluppare la mia visione artistica. Il concept del progetto nasce dopo 10 anni di attività pittorica all’interno di questi spazi. L’attività mirata a tali spazi nasce come contestualizzazione scenografica e concettuale delle mie opere di post-graffittismo, ma porta nel breve a ulteriori riflessioni sociali ed economiche che mi hanno spinto all’ideazione e realizzazione di questo progetto. Sono migliaia solo nel territorio italiano i siti dismessi, siano questi industriali, militari o civili e l’attuale crisi economica e sociale, ora ancor più amplificata dalla pandemia che ha travolto tutta Europa e non solo, non fa che aumentarne costantemente il numero. In questi 10 anni di continua attività pittorica, ricerca ed esplorazioni di tali spazi mi hanno permesso di avere una visuale “privilegiata” di ciò che accade al loro interno. Questi luoghi, oltre a possedere una singolare storia, vedono svilupparsi dinamiche che esulano completamente dalla realtà esterna a essi, creando al loro interno una realtà sociale avulsa dalla società contemporanea nella quale viviamo.
Spiegati meglio.
Senzatetto, disperati, tossici, artisti di vario tipo, criminali, collettivi politici o semplici curiosi animano questi spazi dando vita a una nuova realtà sociale che nulla ha in comune con la vita svolta all’esterno di essi. A questo si aggiunge la dimensione fisica di tali spazi; sommando quantitativamente le superfici occupate da questi spazi dismessi presenti non solo in Italia ma in tutta Europa è possibile ottenere virtualmente una piccola Nazione a sé stante. Questa Nazione, priva di confini fisici, viste le attuali congiunture economiche e sociali è destinata solo ad aumentare la sua superficie e la sua popolazione, configurandosi nel medio termine come una concreta realtà con la quale sarà necessario confrontarsi. Da queste riflessioni nasce quindi il Totalitarismo delle Rovine, un progetto multidisciplinare tutt’ora in corso di sviluppo che, attraverso anche un vero e proprio Manifesto delle Rovine e un immaginifico che come puoi comprendere già dal nome si rifà ai periodi più bui della nostra Storia, vuole colpire lo spettatore e farlo riflettere sulle grandi crisi del nostro tempo: quelle economiche, sociali e ambientali.
Cosa ti spinge oggi a lavorare per strada, sui muri?
Non tutti lo ammetteranno, ma se scegli di esprimerti attraverso i graffiti, ovvero scrivendo il tuo nome a caratteri cubitali sui muri, significa che hai un’estrema urgenza di esprimere il tuo ego, di urlare al mondo che ci sei anche tu. Che questa sia data da frustrazioni, malessere o semplicemente da un ego smisurato, il significato più profondo è questo. Con la maturità le cose non cambiano molto. Qualsiasi forma di arte tu decida di abbracciare lo fai per la necessità intima di esprimerti, di comunicare agli altri il tuo essere e il tuo pensiero. Il concetto del “lo faccio per me stesso” lo trovo fasullo, se fosse veramente così i tuoi lavori li nasconderesti sotto al letto, non li mostreresti al pubblico, perché in fondo è il tuo “te stesso” che ha bisogno dell’altro per comunicare, il principio di qualsiasi forma d’arte. Io mi ritengo una persona schiva ma sociale e che ama però, anche troppo, la solitudine. Dipingere mi permette inconsciamente di trovare un equilibrio tra questi due aspetti, mi permette di isolarmi e allo stesso tempo di comunicare verso l’esterno in maniera indiretta.
Cosa cambierà nella Street Art a tuo avviso dopo questa pandemia?
È presto per dirlo, ma non la vedo bene. Se per Street Art intendiamo l’arte urbana in genere, in Italia già negli ultimi anni si sta dipingendo molto meno e i contesti validi in cui farlo ormai si contano sulle dita di una mano. È un trend palese a tutti che prescinde dal Covid, perché è un problema strutturale e le ragioni sono diverse. Tra le tante a mio parere c’è come è stato strutturato il nostro circuito nazionale. Un grande circuito artistico è grande non per i grandi nomi che richiama, ma se è in grado di far diventare grandi i nomi di artisti emergenti e questo è successo solo in rari casi. Unisci questo a curatele spesso dilettantistiche quando va bene e criminali quando va male e la catastrofe è servita. Per questo e per molte altre ragioni, come dicevo, ci ritroviamo nell’arte urbana con un tessuto molto disgregato, in cui non è presente una vera e propria scena, ma una galassia di artisti costretti a muoversi e “cercar fortuna” in maniera autonoma e indipendente. È altrettanto palese infatti come chi se la stia cavando maggiormente è chi è riuscito, grazie alle proprie capacità, a lavorare maggiormente all’estero. A fronte di questo non riesco proprio a vedere la situazione “post-Covid” in maniera serena né tantomeno pensare che questa pandemia possa addirittura migliorarne la condizione, anzi è sufficiente osservare quale sia stata l’attenzione riservata alla cultura in questo periodo.
Cosa ha significato per te questo periodo di stop?
Per me è stato un colpo durissimo. In questi primi sei mesi sono saltate un sacco di date tra esposizioni, pareti e performance con il mio progetto noise Compiuta Resonance. L’unica cosa positiva è che ho avuto molto tempo per lavorare in studio a nuove ricerche potendo sviluppare nuovi lavori e tele di cui sono molto contento. Ora però è necessario capire se queste cose abbiano subito solo una sospensione o un arresto totale.
Come scegli cosa scrivere e rappresentare? Quali tecniche utilizzi?
Pur essendoci dietro una grande ricerca, nel mio lavoro è tutto piuttosto aleatorio. La mia ricerca si basa da sempre sul contrasto della forma geometrica con il segno gestuale e il contrasto tra il bianco e il nero e la composizione nelle mie opere segue sempre i principi dettati dai grandi del passato come Kandinsky o Malevich. Malgrado questo, però, e malgrado ferree regole che io stesso mi pongo nella composizione dei miei lavori, per me dipingere è un atto quasi spirituale e di introspezione e di conseguenza mi affido sempre a ciò che l’istinto mi suggerisce di fare in quel dato momento. Il risultato sono lavori anche molto diversi tra loro, ma legati sempre da un filo conduttore spirituale che, per chi mi conosce, rende i miei lavori molto riconoscibili. Riguardo alle tecniche utilizzate, dopo anni di sperimentazione passando dai wallpaper alle installazioni, dagli stencil ai marker, sono tornato al mio primo grande amore: gli spray, che utilizzo per la quasi totalità dei miei lavori, siano questi su muro o su tela.
Perché ti sei avvicinato alla Street Art? Che ricordo ne hai?
Per citare Mrfijodor nella sua recente intervista, mi ritengo anch’io un “graffitaro”. Anch’io arrivo dal graffiti writing e anche se la Street Art nell’accezione più pura del termine è poi diventata parte del mio percorso artistico, non sarei mai qui ora se, ormai 20 anni fa, non mi fossi innamorato del writing e della sua cultura. Il ricordo che ne ho è bellissimo. La golden age dell’hip hop italiano e con essa quella del writing, il primo pezzo a 13 anni sul muro dietro casa su gentile concessione di mio padre, le jam organizzate anche nel paesino della più sperduta provincia, l’energia e la partecipazione che avevano quegli eventi, il cercare i pezzi del writer che più ti piaceva tra i piloni dei cavalcavia o nelle hall of fame, le montagne di foto, lo sketchbook sempre nello zaino, l’aspettare i treni in stazione per vedere i nuovi pezzi dipinti, nascondere gli spray alla mamma, aspettare l’arrivo delle nuove fanzine… A pensarci ora non posso che sorridere pensando a quei tempi. È necessario però sfatare il mito del dualismo hip hop e graffiti. I graffiti devono moltissimo alla scena punk hardcore e skate, scena alla quale anch’io mi sono avvicinato in seguito e, anzi, probabilmente le spinte più creative e innovative sono arrivate proprio da lì. Anche il movimento delle occupazioni ha dato moltissimo allo sviluppo di quest’arte, mi ricordo tra i tanti esempi da citare le incredibili murate organizzate al Livello 57 a Bologna. Pensare ai graffiti come inscindibili dalla scena hip hop è dozzinale, perché probabilmente è stato il movimento artistico più trasversale del mondo underground, coinvolgendo hardocorer, skater, rapper, raver e così via. La cultura hip hop ha forse il merito di aver preservato e custodito questa cultura e il demerito di averla un po’ limitata, ma è solo una mia personale opinione. C’è chi la chiama chiusura, chi identità, sta di certo che il graffiti writing e la sua cultura durano inalterati da ormai quasi 50 anni e sfido qualsiasi movimento artistico a fare altrettanto, Street Art compresa.
La tua definizione di Street Art.
Una definizione precisa di cosa sia la Street Art ora non saprei dartela. Posso dirti però con certezza cosa non è la Street Art. La Street Art non sono i graffiti né il muralismo che vediamo nelle nostre città, non sono le pareti commissionate dai comuni, non sono le aste da Sotheby’s e tantomeno gli articoli, troppo spesso ridicoli, sui giornali nazionali. A pensarci bene, anche se sapessi darti una definizione corretta di ciò che oggi è la Street Art, sarebbe comunque scorretta perché la Street Art, quella vera, domani sarà già altro rispetto a oggi.
In che direzione sta andando ora la tua ricerca?
Essendomi sempre affidato all’istinto e a una ricerca interiore, mi risulta veramente difficile dire dove stia andando il mio lavoro, perché figlio del momento presente e di nessuna particolare progettazione. Posso dire che, affascinato dal concetto di “Arte monumentale”, sto portando il mio post-graffitismo alla multidisciplinarietà, intersecandolo con la scrittura e progetti più “concettuali” che esulano dalla sola pittura, vedi il Totalitarismo delle Rovine o progetti di installazioni sempre legate alla questione a me tanto cara dell’abbandono. Sto lavorando inoltre a una performance noise: Compiuta Resonance, un progetto a cui tengo molto nel quale il post-graffitismo si lega alla musica grazie all’amplificazione e manipolazione analogica in presa diretta degli spray che utilizzo durante una sessione di pittura. È una cosa nuova in cui credo molto per le sue potenzialità e il cui sviluppo tecnico è stato piuttosto complesso, devo ringraziare per questo Deison, storico musicista noise della scena italiana. In questo momento sto sviluppando ulteriormente la performance insieme a un altro musicista friulano, Marco Zuccolo, che mi accompagna in questa avventura. Purtroppo anche in questo caso il Covid ha lasciato il suo segno, annullando in questi mesi alcune performance lungo lo Stivale.
Progetti per il futuro?
Onestamente non lo so. Anche se i progetti come vedi sono tanti, dal punto di vista artistico vivo da sempre alla giornata e, come immagino si sia capito, non riesco a essere molto positivo su come il “sistema cultura” in Italia reagirà a questa pandemia. Credo si capisca dal mio lavoro, sono un amante delle avanguardie dei primi del ‘900 come il Suprematismo e il Costruttivismo e sono molto legato al tema del post-industriale, che è stato incredibilmente capace di leggere la società attuale: il declino dell’industria manifatturiera, l’avanzamento delle nuove tecnologie e l’alienazione dettata da esse. Se a questo aggiungiamo la visione distopica del cyberpunk abbiamo ormai da decenni una lettura quasi perfetta del nostro presente. Dico questo perché ritengo che il presente in cui viviamo sia andato però ben oltre il presente prospettato da quei movimenti: non solo viviamo il declino, ma stiamo incominciando anche a fare i conti con cosa questo rappresenti su innumerevoli fronti del nostro vivere quotidiano e non vedo, o almeno non sono in grado di percepire, una lettura profonda di questo da parte dell’arte. L’arte o meglio le sue avanguardie hanno sempre avuto la capacità di interpretare il futuro attraverso il presente e porsi di fronte a questo in maniera critica e quasi premonitiva, ma questo tassello ora mi sembra mancare. Forse l’alienazione si è già spinta troppo avanti, forse l’arte è diventata troppo fine a se stessa e autoreferenziale o forse sono solo io che mi sbaglio, ma manca questo tipo di visione in un’epoca ormai da considerare “post-tutto” o “post-rovina” come mi piace definirla. Diciamo che non ho idea di cosa farò domani, ma nel mio piccolo cercherò di continuare questa narrazione.
‒ Alessia Tommasini
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