Ecco perché il bambino migrante di Banksy non dovrebbe essere restaurato
Nonostante non siano ancora scaduti i settant’anni dal concepimento dell’opera Vittorio Sgarbi vuole mettere sotto tutela l’opera di Bansky. Peccato che l’artista l’aveva concepita come un intervento estemporaneo per parlare (anche) della crisi ambientale in Laguna
In tempi in cui poche figure istituzionali e politiche hanno il coraggio di prendersi la responsabilità delle proprie azioni, le ultime dichiarazioni del sottosegretario di Stato per la Cultura Vittorio Sgarbi appaiono quasi sconcertanti.
No, non mi sto riferendo a quanto lo stesso vada affermando attorno la nomina del Padiglione Italia per la Biennale 2024, bensì per un intervento del tanto amato attivista e, a volte, artista, Banksy. Mi auguro si colga il mio tono ironico (che in parte tradisce un certo affaticamento) per l’ennesimo “discorso” attorno alla legittimità dell’intervento illegale e anonimo, ma anche in merito a chi si può arrogare il diritto di agire personalmente nel luogo pubblico utilizzando il proprio potere.
Se questo spazio collettivo è anche una città devastata dalla turistificazione, dalla gentrificazione culturale, dalla speculazione sociale ed economica, quale è Venezia, allora si può subito convenire che quanto sta accadendo rispetto alla vicenda di Banksy è, a dir poco, scontato.
L’intervento di Banksy a Venezia
Procedo però per ordine: nelle vicinanze di Campo San Pantalon, nel Sestiere Dorsoduro, fra l’8 e il 9 maggio 2019, Banksy realizza un intervento piuttosto emblematico. Il corto circuito visivo così come quello concettuale è immediato: per evidenziare i paradossi di una migrazione sconvolgente, Banksy si concentra sulle condizioni tragiche dei tantissimi migranti che quotidianamente arrivano sulle nostre coste e in particolar modo sulle condizioni dei minori. Il bambino migrante (the migrant child riporta alla memoria the radiant child di Keith Haring) si comporta come molti dei piecesprecedenti di Banksy necessari ad evidenziare le incongruenze e le drammatiche conseguenze del comportamento e delle responsabilità collettive. Questo bambino ha in mano un razzo di segnalazione non perché sta per lanciarsi contro la celere in una manifestazione studentesca, piuttosto perché sta chiedendo aiuto e quel fumogeno è l’unica cosa che gli possa permettere di salvarsi la vita.
Il bambino migrante diventa il perfetto simulacro di una tragedia in corso e se tanto non bastasse potrebbe essere immaginato in dispnea perché realizzato a bordo canale e, considerando le attuali condizioni strutturali della città, al primo suono dell’allarme dell’acqua alta in laguna, il bimbo finirebbe sott’acqua.
Il bambino migrante e il restauro
L’innalzamento globale del livello delle acque diviene altro argomento rilevante dell’attuale crisi climatica in corso che pone il passante, come colui che vede l’immagine in rete, di fronte l’instabilità e la fragilità delle nostre esistenze. Sono oramai passati quattro anni dalla sua realizzazione e fra salsedine, intemperie e umidità in abbondanza l’intervento sarebbe destinato a vivere di un tempo “esposto” molto breve.
Questa però non sarà la sorte del bambino migrante perché il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi ha scelto di occuparsene, non rispettando la scadenza classica dei settant’anni per la tutela, la conservazione e la messa in sicurezza della Soprintendenza, e muovendosi personalmente per attivare con effetto immediato la disponibilità di un istituto bancario a coprire le spese. Un importante intervento di tutela del patrimonio artistico contemporaneo che, come affermato dallo stesso Sgarbi, travalica ogni possibile riflessione anche sul fatto che Banksy sia vivo: “Non ci interessa se l’opera abbia o no più di settant’anni, né se l’autore sia vivo e neppure se ci dia il consenso al restauro, dal momento che, tra l’altro, il murales è stato realizzato ‘illegalmente’. Mi assumo io la responsabilità dell’intervento avendo la delega sull’arte contemporanea, ed è mio compito tutelarla”.
Il copyright è per perdenti?
Tale nota ufficiale diffusa dal Ministero elimina qualsiasi altra possibile riflessione. Lo vuole Sgarbi e quindi si fa, non lo vuole Sgarbi e quindi non si fa. Se servono soldi e Sgarbi vuole, i soldi si trovano, se servono soldi e Sgarbi non vuole, i soldi non ci sono più. Non credo si possa aggiungere molto altro se non riprendere una breve dichiarazione che lo stesso Banksy da alcuni anni ha inserito sul proprio sito: “Sei un’azienda che desidera concedere in licenza l’arte di Banksy per uso commerciale? Allora sei nel posto giusto: non puoi. Solo Pest Control Office (l’ufficio di controllo dei parassiti) ha il permesso di utilizzare o concedere in licenza la mia opera d’arte. Se qualcun altro ti ha concesso l’autorizzazione, non hai l’autorizzazione. Ho scritto The copyright is for losers (il copyright è per i perdenti) nel mio libro (protetto da copyright) e incoraggio ancora chiunque a prendere e modificare la mia arte per il proprio divertimento personale, ma non a scopo di lucro o per far sembrare che io abbia approvato qualcosa quando non l’ho fatto.”
Qualcuno potrebbe farmi notare che qui non siamo di fronte a un procedimento commerciale, riporto però l’attenzione del lettore al termine usato poco sopra in questo testo, turistificazione, ovvero quello che sta capitando in ogni piccola, media e grande città italiana. In realtà Venezia non avrebbe bisogno di richiamare più persone sulle proprie calli, già alquanto malmesse e traballanti, ma in questa operazione, almeno a mio parere, non c’è l’urgenza di una visione culturale a lungo raggio bensì l’ennesimo proclama populista, retorico e alquanto propagandista.
La street art e lo spazio pubblico
In ripetute occasioni mi sono sentita accusare di una forma di radicalità snob nell’affermare di non volere “mantenere” o “recuperare” le molte presenze di arte urbana in giro per il nostro paese; mi assumo, ancora una volta, la responsabilità di evidenziare che più procediamo in questa direzione e più indeboliamo tutte quelle pratiche che chiedono di esistere solo fino a quando la strada lo permetterà, continuando a ribadire che ciò che nasce per strada non solo debba restare dove è stato realizzato, ma non possa essere in alcun modo prelevato. Di questo parliamo quando facciamo riferimento ad alcune intenzioni artistiche entro le maglie di questo movimento oramai adulto e maturo per difendersi da solo. Sappiamo anche però, vedendo le tante gigantesche superfici che ammiccano con le loro belle immagini rassicuranti o celebrative, che questa tipologia di arte nello spazio pubblico sembra aver già accettato il suo destino e il suo declino.
Fabiola Naldi
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