L’artista italiana che ha ideato un festival di street art a Brooklyn. Parla Michela Muserra
Nel quartiere a prevalenza afroamericana di Bed-Stuy, Muserra vive e lavora da vent’anni, e ha trovato la sua dimensione nella street art. Per celebrarla organizza un festival pensato come una festa per la comunità. E contro la gentrificazione
In uno dei quartieri di Brooklyn a più rapida gentrificazione, un’italiana usa l’arte per creare comunità e riqualificare gli spazi urbani. Siamo a Bedford-Stuyvesant, colloquialmente conosciuto come Bed-Stuy, un quartiere di case vittoriane e brownstone, fin dagli Anni ‘30 diventato una delle più popolose comunità afroamericane di New York. Qui, lo scorso 30 settembre è andata in scena la seconda edizione del festival di street art Bedstuy Walls Mural Festival. E qui, dal 2008, abita Michela Muserra (1975), artista originaria di Foggia che da vent’anni ha fatto di New York la sua casa e che, negli anni, alle pareti bianche delle gallerie, ha iniziato a preferire i muri pieni di vita della città, trovando la sua dimensione nella street art. “Ero arrivata a New York per fare un’esperienza di tre mesi” ci ha raccontato “ma poi sono tornata in Italia e ho detto: ‘ok ragazzi, dall’altra parte è tutto molto più bello, io me ne torno lì’. E sono ancora qua”.
Michela Muserra. Una street artist italiana a Bed-Stuy
Dopo vent’anni, i più svariati lavori e la testardaggine dei suoi sogni, dal 2022 Muserra ha trasformato le sue passioni e la sua energia nel Bedstuy Walls Mural Festival, un progetto in cui trova espressione non solo la sua creatività artistica, ma il suo amore per la comunità che l’ha accolta. L’anno scorso, la prima edizione del festival è stata una grande festa di quartiere. Quest’anno l’evento ha visto la partecipazione di un folto gruppo di street artist, tra cui nomi noti come Jappy Agoncillo, Jaek El Diablo, Jeff Henriquez, Shiro e Toofly, che hanno dipinto 90 metri di muro, mentre il quartiere era animato da musica, balli, cibo e attività di gruppo.
Intervista a Michela Muserra
Come è nato Bedstuy Walls?
Un po’ per caso. Nel 2021 una coppia di vicini di casa mi invitò ad andare a visitare il loro laboratorio in cui fabbricano scenografie e oggetti di scena. Era in una palazzina non lontana da casa mia e quando ci andai notai subito un grosso muro, della lunghezza di un intero isolato, tutto rovinato e sporco. Mi venne subito voglia di dipingerci: così è venuta fuori l’idea di fare un festival invitando diversi street artist a dipingere sul muro. Volevo che fosse orientato alle famiglie e ai bambini, con live art, musica, giochi. Ma non avevo idea di come fare.
Quali sono state le maggiori difficoltà?
Mi ci è voluto un anno solo per ottenere l’ok del proprietario, un italo-americano, tra l’altro. All’inizio non ne voleva sapere, finché, stremato, mi ha detto di sì. Questo succedeva a maggio 2022. Da lì in poi, la comunità si è raccolta intorno al progetto, ognuno ha messo a disposizione le sue competenze gratuitamente.
Per esempio?
Una compagnia di roller skating ha fornito pattini gratuitamente, un altro gruppo che fa double dutch con la corda ha dato disponibilità per fare attività gratuite, così come il gruppo che fa breakdance. Un’altra italiana, Annalisa Iadicicco, è intervenuta con il suo Blue bus project. Per non parlare degli artisti: ci sono stati street artist che di solito si fanno pagare soldoni per fare un muro e qui invece hanno voluto fare tutto gratis.
Gli artisti del Bedstuy Walls Mural Festival
Come hai selezionato gli artisti?
Ha aiutato il fatto che è entrato nel progetto anche il mio fidanzato Frankie Velez, che è un curatore noto nell’ambito della street art. Quindi tanti artisti hanno dato disponibilità, alcuni avevano lavorato con lui in passato, altri sono semplicemente artisti che io conosco e di cui mi piace il lavoro.
Ora si è conclusa anche la seconda edizione. Rispetto all’anno scorso la formula è rimasta la stessa o ci sono state novità?
Stessa formula, nuove opere e artisti. I muri (un paio in più dell’anno precedente) sono stati tutti ridipinti da una nuova line up di artisti, una trentina in tutto. E sono intervenuti nuovi soggetti della comunità, come un asilo del quartiere e uno scrittore di libri per bambini. La cosa più bella è che molte persone che prima non si conoscevano hanno creato legami e si aiutano a vicenda.
Il pubblico è stato coinvolto nelle attività?
Sì, le attività sono tutte gratis, molte rivolte soprattutto ai bambini e la gente partecipa, dipinge, balla: è una vera festa di quartiere.
Il lavoro di un’artista italiana a New York
Come viene visto il fatto che un’italiana promuova un’iniziativa con un’anima così comunitaria?
Abito a Bed Stuy dal 2008, più o meno da quando è iniziata la gentrificazione. Ormai la sento come casa e spero di aver assorbito e capito la cultura di questo posto. Come mi vedono loro non lo so, ma io interagisco con la consapevolezza del fatto che sono bianca.
Credi che ti possano vedere come una gentrifier?
No, sono sempre stata accolta fraternamente. Nessuno mi ha mai chiesto da quanto tempo sono a Bed Stuy, né di dove sono.
E tu non fai un’identità del fatto di essere italiana? La tua italianità non entra nel tuo lavoro?
No, non sono una persona patriottica. Sono orgogliosa, ma non sventolo la mia nazionalità. Mi sento, come si dice, cittadina del mondo. Ultimamente noto, invece, che, quando creo dei personaggi nei miei lavori, mi viene naturale rappresentare persone nere. Ma più che altro perché se immagino un carattere, mi viene poi spontaneo rappresentarlo con la sua identità.
E non ti è mai stato contestato il fatto di rappresentare un’identità che non è la tua?
Eh, qualcuno in verità sì, mi ha dato addosso, è capitato. Ma sono stati solo un paio di episodi spiacevoli.
Rispetto al 2008 Bed Stuy è cambiato molto. Come si collocano iniziative come il tuo festival all’interno dei cambiamenti che il quartiere sta vivendo?
L’idea di “beautifying the neighborhood” ha pro e contro. Questa è una mia grossa paura: stiamo rivalutando una zona, ok, ma ci sono dei rischi. Per esempio, proprio davanti al nostro muro, l’altro lato della strada è residenziale ed è sempre stato storicamente nero. Adesso, non so se è una coincidenza, una famiglia di bianchi ha comprato casa lì. Quindi mi chiedo sempre se sto facendo la cosa giusta e se la sto facendo bene, in modo da non allontanare le persone di qui, ma contribuendo a migliorare la comunità. Molte persone ci hanno detto che per loro questo è un regalo: chi dice che prima trovava la strada degradata e ora invece si gode i murales, i ragazzi che prima in quel block nemmeno ci passavano e ora si siedono lì a chiacchierare; il proprietario ha fatto rifare a sue spese il marciapiede; alcune scuole della zona che ci hanno contattato per fare workshop con i bambini, spiegare il progetto e parlare di street art.
E invece i rischi?
Il rischio risiede nel real estate. Se la zona si rivaluta e i prezzi delle proprietà salgono, si rischia di allontanare le persone che qui sono nate e cresciute. Ed è quello che voglio evitare. Per questo cerchiamo sempre di coinvolgere artisti locali e che rappresentino la cultura del posto e anche di coinvolgere business del quartiere che possano promuovere quello che fanno.
Cosa vedi nel futuro di Bedstuy Walls?
Vorrei che diventasse qualcosa di sempre più strutturato. Voglio creare una non profit, collaborare con le scuole, fare workshop con i bambini, offrire classi d’arte per dare opportunità ai ragazzi che non possono permettersi corsi privati, coinvolgere altre comunità e fare community murals con la partecipazione dei bambini.
Dopo vent’anni è ancora tutto più bello “di qua”?
Vengo da una città piccola e, purtroppo, non bella, per ammissione dei suoi stessi cittadini. Per due anni Foggia è stata penultima nella classifica di vivibilità del Sole 24 Ore. Forse all’inizio sono stata spinta dalla situazione da cui venivo, ma nel frattempo purtroppo le cose non sono migliorate, soprattutto in termini di criminalità. C’è tanto impegno, ma io ormai mi sento più a casa qui che là. Questo non è il posto ideale – pensiamo alla sanità, alla qualità della vita – ma per quello che voglio fare adesso è il posto dove devo stare e voglio stare.
Maurita Cardone
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