Dalla strada al museo. A Bolzano scritte e graffiti protagonisti di una mostra  

Al Museion c’è perfino un treno. Tra opere, video e installazioni, Graffiti è una mostra in cui non manca nulla, che si propone di far luce su una modalità espressiva da sempre in bilico tra discordanti realtà

Cosa si intende per Graffiti? Qual è il limite tra Graffiti, arte e vandalismo? Queste e altre le domande a cui si propone di rispondere il Museion di Bolzano con Graffiti, mostra con cui il museo inaugura la nuova linea espositiva. “Per i prossimi 4 anni” ha affermato il direttore, Bart van der Heide: “la programmazione sarà focalizzata sulle forme di resistenza gentile e non violenta, di cui l’arte, come pratica sociale e urbana, è espressione essenziale”.  

Graffiti una modalità espressiva sul crinale tra strada e atelier 

Graffiti, articolandosi lungo un percorso che copre oltre settant’anni di storia, intende far luce su un linguaggio che da tempo vive in bilico tra strada e atelier. I primi a sperimentare le potenzialità espressive delle bombolette, subito dopo la loro invenzione nel 1951, furono gli artisti. Non a caso l’opera che, dopo il video di Ben Solomon (Londra, 1982), apre il percorso espositivo è Untitled, un paesaggio astratto di New York, del 1955, di Hedda Stern (Bucarest, 1910 – New york, 2011). Eppure, per quanto gli artisti abbiano giocato un ruolo essenziale, bisogna ammettere che, con l’entrata in scena dei writers, sul finire degli anni Sessanta, la situazione è cambiata radicalmente, legando indissolubilmente lo spray alla strada, ai tag, al lettering. Ma quindi, qual è la prospettiva da cui osservare i graffiti oggi? A tal proposito Ned Vena (Boston, 1982), artista e co-curatore della mostra con Leonie Radine, ha dichiarato: “I graffiti sono diventati un linguaggio di ribellione universale, una lente attraverso cui guardare la realtà, quindi è doveroso affrontarli da molteplici punti di vista”.   

graffiti©Luca Guadagnini
graffiti©Luca Guadagnini

Al Museion di Bolzano la prima sezione di Graffiti è un viaggio dagli anni ’50 a oggi 

Del resto, come ha osservato la Radine, “la mostra, pur partendo da una panoramica sugli anni ’50, con opere dei primi sperimentatori del medium, tra cui Carol Rama, Charlotte Posenenske e Dan Christensen; trae spunto da un nucleo di opere in collezione permanente realizzate tra il 1981/84 – quando i graffiti avevano iniziato a suscitare l’interesse del mercato – da artisti che hanno esplorato il rapporto tra arte e graffiti portandoli direttamente nello studio, ovvero sulla tela. In mostra si alternano writers come Blade, Zefyr e Seen per lo più fedeli ai codici visivi usati sui treni; ad altri che si sono spinti verso esiti più figurativi, come Daze e Quik”.    

Per iniziare: una panoramica cronologica tra “Spray Painting” e “Painting Graffiti” 

L’esposizione, seguendo un ordine cronologico, prosegue con artisti di fama internazionale, come Keith Haring (USA, 1958 – 1990) e Martin Wong (USA, 1946 – 1999), fondamentali per legittimare i graffiti agli occhi di un pubblico ancora scettico. Successivamente, come atto di ribellione e arte contemporanea, sono entrati nel vocabolario visivo di artisti post concettuali tra cui Michael Krebber (Germania, 1954), Christopher Wool (UK, 1955), Karin Sander (Germania, 1957) e Heike-Karin Fölle (Germania, 1967) che hanno declinato i graffiti in opere anti-pittoriche, guardando tanto al presente, quanto al passato. Segno e linguaggio sono al centro di opere come You are trapped on Earth so you will explode, 1983/84, di Jenny Holzer (USA, 1950) e Lady Pink (Ecuador, 1964); anche in Fölle diventano il fulcro della riflessione. Partendo dalla suggestione di Barré, Fölle crea un nudo confronto tra spray e parola che trova espressione in lavori come total femme (2016). Dal 2000, etichette e distinzioni vengono meno in favore di una fluidità che vede i writers entrare nelle gallerie e gli artisti uscire nelle strade. E se molti graffitari non si preoccupano di adeguare il loro linguaggio al contesto; altri, come di Matthew “Zexor” Rodriguez (New York, 1972 – 2019), riservano alla strada il codice grafico del tag, per proporre in galleria efficaci dipinti astratti, ispirati all’action painting.   

I graffiti durante e dopo il lockdown 

Dal lockdown in poi le distinzioni hanno lasciato il posto a contaminazione e sperimentazione. Oggi ogni declinazione dei Graffiti è tollerata, dal nerofumo di Armando Nin (New York, 1986); alle stratificazioni di Nick Atkins (Boston, 1982); fino alla scarnificazione totale del soggetto in SoiL Thornton (New York, 1990) che, con LaborCont(r)act (assisted) 2025, si limita a segnare un numero di telefono sulla parete, come un appello estremo.  

Dopo questa prima parte della mostra, dal carattere più didascalico, il percorso continua al quarto piano, con la seconda sezione che trasforma il museo in un paesaggio urbano, per esplorare il rapporto tra graffiti e architettura. Un passaggio mediato dal dialogo tra le installazioni di N.O. Madski e Kaya che portano i graffiti fuori dalla parete.  

Al quarto piano la città entra nel Museion di Bolzano  

Come sottolineato dalla curatrice, “l’ampia sala ospita opere che pur non partendo o trattando di graffiti sono accomunate dal riconoscimento della loro importanza nel dare forma alla vita e alla cultura urbana”. Così, accanto a testimonianze fotografiche, video, sculture e pitture, trovano posto i readymade di Klara Lidén (Svezia, 1979), con cui la città entra letteralmente nel museo. Cassette della posta, armadi elettrici, persino un bidone, diventano opere d’arte, vestigia della contemporaneità. Mentre, l’installazione Tile Escalation, 2025 di Alix Vernet (New York, 1997) costituita da inserti di piastrelle della metropolitana, nel presentare solo tracce di graffiti, fa riflettere sulla natura effimera di questa pratica e sulla fugacità del momento. Ancora, la scultura di R.I.P. Germain (UK, 1988), trasportando la saracinesca – metaforico ingresso – di uno smart shop nel museo, focalizza l’attenzione sui concetti di inclusione – esclusione, dentro – fuori. E questo già denso tessuto espositivo viene animato dal New Media Express (2014-16) di Josephine Pryde (UK, 1967); un treno, con tanto di graffiti, ideato per trasportare i visitatori e offrire un punto di vista alternativo sul panorama espositivo. Completa il percorso Architecture is the ultimate erotic act carry it to excess, 2023, di Monica Bonvicini (Venezia, 1965); lapidaria ed incisiva affermazione che costituisce tanto un’ode all’architettura, quanto, e soprattutto, alla vita e alla sessualità.

Ludovica Palmieri  

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Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri è nata a Napoli. Vive e lavora a Roma, dove ha conseguito il diploma di laurea magistrale con lode in Storia dell’Arte con un tesi sulla fortuna critica di Correggio nel Settecento presso la terza università. Subito dopo…

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