“La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo”, scrive Marc Augé nelle conclusioni di Rovine e macerie (2003). L’affermazione sulle prime convince per l’efficacia con cui sa cogliere il rinnovamento senza sosta degli spazi urbani contemporanei. A pensarci bene, però, la previsione vale e varrà per la maggior parte dei Paesi occidentali, e per economie in travolgente crescita come la Cina, ma non certo per l’Italia, se si deve giudicare dalla situazione attuale.
Il nostro Paese “cresce” per accumulo e stratificazione di edifici e aree che nascono già come rovine (un po’ come quelle che sorgevano nei parchi inglesi del Settecento) o che diventano tali in breve tempo: palazzi che, per la qualità scadente dei materiali impiegati o per l’assoluta allergia alla manutenzione, sembrano sul punto di crollare e che diresti senza dubbio abbandonati, scoprendovi poi scuole e ospedali; cantieri immobili da anni o in moto impercettibile, facili prede della vegetazione; edifici finiti ma inutili, o illegali, o sequestrati, e quindi vuoti; scheletri di costruzioni che svettano tra i boschi o in aperta campagna. Nell’anonima successione di intonaci scrostati e insegne incomplete, spiccano poi alcuni mirabilia: dal faraonico Air Terminal Ostiense di Julio Lafuente, che ha impiegato solo tre anni a diventare un “relitto urbano” (pare che a fine anno, dopo 21 anni di abbandono, risorgerà come tempio della gastronomia), alle lussu(ri)ose strutture per il mancato G8 della Maddalena.
Quindi, più che un Paese in rovina, come spesso – e a ragione – si ripete, un Paese-rovina. Solo qui, probabilmente, si può vivere come aggirandosi tra le macerie e nei cunicoli di un’unica, immensa rovina, popolata da spaventosi uccelli notturni, da strampalati asceti.
Mi piace immaginare che alla base di questo scenario non ci siano soltanto l’italica indolenza, l’abitudine all’illegalità, la latitanza dello Stato. A tale proliferazione di nuove (e, per definizione, subito vecchie) rovine, e soprattutto al fatto che nessuno muova un dito per toglierle di mezzo, contribuisce un aspetto “sentimentale”: agli italiani le rovine piacciono, le amano. Anche stavolta la colpa è dei soliti romani antichi: per secoli gli abitanti della Penisola hanno convissuto con gli imponenti avanzi della civiltà classica, li hanno riusati e abitati, hanno portato i loro greggi a pascolare all’ombra dei maestosi ruderi. Al punto che il “senso delle rovine” si è impossessato di loro, è entrato nel patrimonio genetico della nazione: non possono più farne a meno, e non paghi delle rovine di una volta, continuano a produrne.
Gli italiani guardano le nuove rovine con lo stesso spirito con cui i loro antenati hanno guardato quelle antiche: sono severi memento. Il Tempo e la Natura hanno travolto un impero senza eguali, perché mai noi miseri mortali dovremmo affannarci? Ogni sforzo è vano, rassegniamoci. In un mondo occidentale tutto rivolto, come è noto, a nascondere la decadenza e la morte, questa onestà di fondo del “paesaggio culturale” nostrano rappresenta uno dei suoi aspetti più interessanti.
La consapevolezza dell’inanità degli sforzi umani, che dalla visione delle rovine trae alimento, condiziona del resto molti aspetti della società peninsulare. Non è certo un caso che il tasso di crescita del nostro PIL occupi con costanza e sfacciataggine gli ultimi posti nelle classifiche internazionali. La Penisola potrebbe addirittura candidarsi a divenire un grande laboratorio del passaggio da una crescita perseguita con scarsa convinzione a una decrescita che tanto maggiormente incontrerebbe il genio patrio…
Ma vi è un però. Da svariati decenni al “rovinismo” di fondo si è sovrapposto, e contrapposto, un fenomeno che va in direzione contraria, il consumismo, declinato da trent’anni a questa parte nella sua versione più becera e pervasiva, quella del “berlusconismo”. Il nostro Presidente del Consiglio è anzi, con il suo belletto, i capelli trapiantati, il corteggio di scosciate ragazzine, l’anti-rovina per eccellenza. Non è solo la sua ossessione del declino e della morte a rendergli i ruderi odiosi e inaccettabili: la rovina non produce, la rovina (anche se magari tirarne su una nuova di zecca fa girare tanti soldi, come insegna la “cricca”) alla lunga non rende.
In ogni caso, Silvio perderà la sua battaglia contro la decadenza, come la perderemo tutti. Quanto all’Italia, la lotta fra capitale e rovine resta aperta: nel frattempo, non ci resta che ammirare il caos di relitti antichi, vecchi e nuovi, questo paesaggio sconvolto che, nella compresenza di bellezza, orrore, pericolo, può dirsi autenticamente sublime.
Fabrizio Federici
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