La sensazione diffusa intorno a questo centocinquantenario è quella di un obbligo che si preferirebbe di gran lunga evitare. Nessun entusiasmo, nessuna voglia di buttarsi a capofitto nella riflessione sulla nostra identità. In effetti, un certo imbarazzo. La percezione diffusa è che ci sia ben poco da festeggiare e che, quando questo benedetto 17 marzo sarà finalmente passato, si potrà tirare un sospiro di sollievo e tornare alla solita, rassicurante mediocrità. L’ennesima occasione sprecata.
E allora via con i servizi e gli speciali un tanto al chilo: tra inspiegabili inviati nel Risorgimento, riproposizioni banali e superficiali della storia patria e invasioni aliene di saggi-paccottiglia, si fa veramente fatica a rintracciare episodi di sana riconsiderazione storico-critica.
Questo è un Paese che si vergogna di se stesso.
Eppure, eppure. Non è che i casi di elaborazione creativa – letteraria, tanto per fare un esempio – siano mancati negli ultimi anni. Grazie a Dio, verrebbe da dire, gli scrittori non ci mancano; e per fortuna non si sono sottratti alla sfida. Il 2008 in questo senso si è caratterizzato come un vero anno d’oro.
Controinsurrezioni, i due racconti “programmatici” di Valerio Evangelisti e Antonio Moresco, da punti di vista creativi pressoché speculari tentavano di rivitalizzare l’epica unitaria: “Il Risorgimento è divenuto tanto ‘ufficiale’ da non esistere nemmeno, se non in un’iconografia tanto onnipresente quanto neutra, fatta di statue e di cimeli. Cose di pietra e di metallo, insomma. Inesorabilmente fredde come soprammobili cui non si fa più caso, tanto sono abituali”.
Giuseppe Genna con Italia De Profundis proponeva una narrazione sperimentale della disintegrazione collettiva. Mentre nel 2009 Giorgio Vasta ha curato (con il contributo, peraltro, del Comitato Italia 150) Anteprima nazionale, quello che è forse a tutt’oggi il tentativo più interessante. La raccolta di racconti cerca di visualizzare e rappresentare l’Italia di domani, dal momento che “nella grammatica cognitiva nazionale c’è un meccanismo che si è rotto: il presente si espande in ogni direzione e l’immaginazione del futuro gira a vuoto”.
È possibile dunque tracciare un ritratto dell’identità italiana recente attraverso le produzioni di quelli (gli ultimi esempi sono Spaesamento dello stesso Vasta e La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio di Enrico Brizzi) che nel passato prossimo si sono cimentati con la storia nazionale, costantemente rimossa e deformata. Come alcuni, non tanti, prima di loro: pensate solo al Luciano Bianciardi di Da Quarto a Torino (1960) e de La battaglia soda (1964).
Ovviamente la nostalgia, come riflesso della rimozione, è sempre in agguato. Capita così che il fresco vincitore del Premio Furla, Matteo Rubbi, parli così della sua opera Italia 61: “Non è una vera e propria citazione. Ho visto quel giornale (La Stampa, 6 maggio 1961 – ‘Gronchi inaugura Italia 61’) e sembrava parlasse di un altro pianeta; aveva qualcosa di alieno, di fantasmatico. Ho pensato: e se mi ritrovassi quel giornale una mattina in un bar? E se quella stessa mattina fosse in tutti i bar?”.
Noi pensiamo che sarebbe un incubo: non vogliamo nessuna mattina del passato che ritorna. Vogliamo costruire nuove mattine, perfettamente posizionate nel futuro e piene di cose italiane, bellissime e terribili, che prima non c’erano.
Christian Caliandro
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