Raumlabor. Spazi al progetto
Li abbiamo imparati a conoscere alla scorsa Artissima. Quando una monumentale discarica differenziata campeggiava di fronte alle vetrate dell’Oval. A progettarlo, un nutrito gruppo di architetti con base a Berlino. Coi quali abbiamo fatto una chiacchierata.
“Siamo spesso bloccati da immaginari preconcetti e prospettive preselezionate. L’architettura sembra sempre ripetere se stessa. Non c’è visione del futuro, rimangono solo i sentimenti. Una volta esisteva qualcosa di simile ad una visione. C’erano persone che discutevano sulle grandi questioni. Ora c’è un solo del sentimento a ricordare questi tempi, tra il desiderio e la malinconia. Quest’era ormai è conclusa. Qui è dove comincia il nostro lavoro”. Con questa premessa si presentano Francesco Apuzzo, Markus Bader, Benjamin Foerster-Baldenius, Andrea Hofmannn, Jan Liesegang, Christof Mayer, Matthias Rick, Axel Timm, uniti sotto il nome di Raumlabor (‘spazio’ + ‘laboratorio’ in tedesco).
Raumlabor è un collettivo in stretta connessione nato a Berlino e formato da otto architetti specializzati che lavorano in maniera interdisciplinare su temi quali la trasformazione e il rinnovamento urbano.
Ad ogni progetto Raumlabor disegna e mette in azione team di esperti costituiti ad hoc, professionisti che mettono in collegamento il collettivo berlinese con specialisti esterni chiamati a seconda di ogni specifico processo creativo. Raumlabor lavora sulle intersezioni tra l’architettura, l’urbanistica, la public art e l’urban intervention. In Italia sono stati avvistati di recente con due concept di rilievo. Il primo è küchenmonument, un generatore di spazio e di viaggio su quattro ruote che ha offerto, durante i giorni d’apertura dell’ultima Biennale di Architettura, la propria struttura gonfiabile come luogo nel quale svolgere eventi, presentazioni, dibattiti e persino laboratori di sedute.
Il secondo progetto del collettivo berlinese ha rappresentato invece il cuore ecosistemico di Artissima 17. La casa delle contaminazioni, infatti, negli spazi dell’Oval è diventata un centro culturale (per la danza, il teatro, la letteratura, il cinema e il design) costruito a misura d’uomo e costituito da balle di plastica, carta, pezzi di automobili, materiali da discarica e vecchi elettrodomestici utilizzati tanto come arredi quanto come allestimenti. Tra il 12 e il 17 aprile prossimi, durante la settimana dedicata al Salone del Mobile, i Raumlabor applicheranno alla città di Milano uno dei loro progetti, ospiti del Public Design Festival.
Una delle mission dei Raumlabor si fonda sulla generazione di pratiche alternative all’interno della circoscrizione e della civiltà urbana che deve essere alimentata dalla cooperazione e dalla auto-responsabilizzazione tra gli individui. Raumlabor ha come obiettivo quello di esplorare i residui di ideali collettivi e i modi per superare le rigide condizioni dettate dalla concorrenza di stampo economico, andando alla ricerca, sul territorio, di nuovi linguaggi, superfici, narrazioni e comunità.
Nel 1999 nascono i Raumlabor. Come ha inciso nella vostra storia la città di Berlino?
Fin da subito ci siamo uniti per creare attività da proporre all’interno di edifici o luoghi urbani esistenti. Ognuno di noi aveva studiato all’Università di Berlino o comunque conosceva bene la città e tutti eravamo d’accordo nell’osservare che, nella vita quotidiana, l’architettura avrebbe dovuto acquisire un’altra visuale, diventando finalmente prassi. Le attività commerciali, nelle nostre visioni, avrebbero dovuto dare maggior spazio alla vita privata delle persone, organizzando gli spazi metropolitani come soluzioni per giungere a nuove strategie di abitabilità e coesistenza. Fin da subito, ci siamo resi conto che la città di Berlino avrebbe potuto essere architettonicamente trasformata, anche se in maniera molto più restrittiva rispetto ai programmi estetizzanti che avevamo studiato in facoltà. Alla fine degli anni ‘90, infatti, si poteva ancora pensare di riuscire a cambiare la città, una capitale che lentamente si stava modificando e che non avrebbe dovuto (secondo le nostre idee) diventare estremamente commerciale. Così abbiamo cominciato a pensare, e poi a partecipare della città attraverso la presentazione di piccoli progetti e concept che cercassero risposte immediate a domande semplici. I Raumlabor avevano e hanno ancora oggi l’obiettivo di esprimere richieste intuitive della gente, invenzioni che possono creare nuove visioni nei confronti di tutti quegli spazi indefiniti ancora presenti all’interno di alcuni quartieri del tessuto urbano. Spazi da riattivare facendo emergere le loro potenzialità interessanti.
Potreste spiegare che cosa intendete per instant urbanism?
Uno dei nostri obiettivi è aprire gli spazi della comunità all’immaginazione individuale. Le persone devono riconquistare il controllo dei luoghi, delle loro narrazioni e della loro storia, riconvertendoli attraverso attività concrete da svolgere in essi. Ogni nuova presenza, così come ogni nuova struttura, nell’area urbana deve abituarsi a un processo di negoziazione che coinvolge e ridefinisce l’identità di abitanti dell’area cittadina. Il dialogo tra uomini ed edifici per noi dev’essere lineare e semplice, promuovendo progetti che attivino visioni positive sulla città, prospettive che devono diventare act in public. Ogni nuovo spazio deve diventare confidenziale per evitare di rimanere troppo tempo in balia di leggi e di commerci territoriali. I progetti dei Raumlabor devono far ritrovare la libertà della condivisione nel vivere civile, offrendo alla società di rinforzare ciascuna identità emergente.
Dunque, lo spazio che voi strutturate è di tipo metaforico o sociologico?
Nello spazio in sé e per sé si condensano diverse problematiche. Noi vogliamo ascoltare i luoghi e poi provocare chi li attraversa. Non viceversa. Ogni area è una metafora, l’architettura è solo uno dei linguaggi possibili attraverso cui esprimerla. Progettiamo strutture temporanee ed esperienziali, ambendo a non creare distanze tra le persone, per rendere lo spazio una prospettiva raggiungibile. Il risultato è la creazione di un’architettura generata dalle medesime condizioni dello spazio che si deve comportare come uno strumento per tracciare nuove storie. L’architettura che amalgama spazio ed esperienza deve dare l’opportunità di far scoprire nuovi benefici, instillando nell’immaginazione dei suoi fruitori inedite visioni della città. Ulteriori opzioni possibili, scenari da sovrapporre interamente all’orizzonte di posti abbandonati, luoghi con depressioni endemiche e con futuro incerto. Un esempio pratico di questo pensiero è il progetto intitolato Der Berg, un’installazione spaziale all’interno del Palast der Republic, a Berlino. Qui abbiamo formato un laboratorio urbano per riconquistare e quindi riportare all’attenzione di tutti un crocevia del traffico dimenticato, un luogo che poi è diventato uno spazio pubblico utilizzato anche dall’organizzazione di un festival musicale a Graz.
In che modo la pratica di un’architettura performativa si avvicina all’arte contemporanea?
L’architettura crea spazi per sperimentare e per registrare sensibilità, non per fare soldi. Secondo noi ogni vuoto progettato e strutturato deve diventare un puro spazio di produzione creativa, preconizzando addirittura quel che il futuro potrebbe riservarci fra venti anni. Forse questo ci accomuna all’arte contemporanea. Raumlabor lavora spesso sul livello astratto della pianificazione urbana, avendo come specializzazione quella di attivare strategie e opportunità dinamiche. Noi lavoriamo molto simulando o evocando la consistenza di manufatti, in tutto quel che progettiamo. Tutto deve essere semplice, facilmente ideabile. I materiali che scegliamo di utilizzare non sono particolarmente sintetici o adatti per creare effetti speciali. Molto spesso concepiamo la materia come una delle strategie chiave per attivare, negli spazi pubblici, motori di sviluppo di interi quartieri. Noi amiamo, ad esempio, mettere in scena reali interventi urbani. Attraverso poche idee architetture specifiche o interi siti d’interesse possono trasformarsi in qualcosa d’altro. Qualcosa di completamente differente dalle attese e dall’immaginario. Attraverso il dispiegamento programmatico di narrazioni all’interno di spazi abbandonati, portiamo alla luce nuove atmosfere e suggestioni. Mentre attraverso la partecipazione e la responsabilizzazione di ogni pubblico o attore locale sovrapponiamo discipline professionali e creative, dando forma a nuovi campi d’azione (Kuechenmonument, Hotel Neustadt e Eichbaumoper).
Che cosa può essere considerata oggi una vera nuova idea?
Il rallentare. L’andare piano. Io ad esempio [qui a parlare è Jan Liesegang] non sono un fan del restauro conservativo. Quel che preferisco è un processo lento, una traccia temporale che può aggiustare l’estetica e la funzionalità di edifici, facendone emergere le capacità architettoniche. Non si può essere neutrali, cioè raggiungere l’essenzialità e la perfezione se prima non ci si domanda quel che può succedere all’interno di ogni spazio di discussione. È in questo modo che si trasformano campi speculativi in luoghi totali, in esperimenti e azioni per pianificare nuove idee. In Italia, ad esempio, nelle città del sud ci sono ancora molte opportunità a scoprire. Lì ci piacerebbe, ad esempio, ideare nuovi modi per ricavare e donare spazio immediato, magari anche in maniera effimera, ma senza creare abusi edilizi. Questa potrebbe essere una bella sfida, per nuove invenzioni.
Qual è la vostra visione del futuro?
Raumlabor lavora spesso analizzando mosse e abitudini di quelle che noi chiamiamo temporary communities. Sono loro il futuro delle città. È nelle piccole comunità di persone che persiste la memoria collettiva degli eventi che creiamo o delle strutture che progettiamo. Il nostro scopo è cercare di portare la gente a vivere e a condividere gli spazi che noi ritagliamo dalla normalità cittadina. Il nostro sguardo di tipo sociografico ci ha permesso, come in Hotel Neustadt, di creare un surrogato nozionistico di città finalmente indipendente, libera rispetto alle logiche capitalistiche, del profitto e del valore d’uso. L’architettura in questo caso, come un laboratorio per costruzioni sperimentali, deve diventare un luogo pubblico adibito a pratiche partecipatorie. In fondo, Raumlabor ha come punti focali della propria ricerca: il fondamento di nuovi principi costruttivi, differenti punti di assemblaggio tra materiali, nuove geometrie nell’arredamento e un alleggerimento delle strutture protettive. Il fine è portare la gente a incontrarsi e a interagire pubblicamente senza costrizioni. Il futuro deve lasciare che ciascuno di noi si riappropri di usi temporanei e di momenti vitali delle nostre esperienze, riattivando allo stesso tempo anche il tessuto urbano e le sue problematiche che ci circondano.
Ginevra Bria e Atto Belloli Ardessi
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