Giovani ribelli, giovani imbelli
Il Mediterraneo brucia? Certo, lo sappiamo tutti. Brucia a sud. E in parte anche a est dell’Italia. Nel nostro Paese, invece, vige l’attendismo consolatorio, oliato da tv e spettacolini socio-politici. Anche se, forse forse, qualcosa inizia a muoversi.
Il problema politico sollevato dalle rivolte nel Mediterraneo richiama alla memoria una felice immagine di Norberto Bobbio: la metafora del pesce nella rete che “crede che esista una via d’uscita, e la via d’uscita non c’è”. L’affannosa ricerca di un nuovo ordine nel Mediterraneo sta appunto nell’illusione tutta europea che esista una via d’uscita democratica dalla rete delle rivolte, via d’uscita che riconfermi la logorata supremazia europea come se nulla fosse accaduto.
Per la freschezza e la spontaneità ideale e disinteressata dei rivoltosi questo non è pensabile: la stessa spontaneità intravista in Grecia, dove la gioventù ha lottato contro le misure europeiste della Merkel. Nel volgere di qualche mese, l’integrazione commerciale del Mediterraneo è crollata miseramente sotto la sferza della rivolta. Prima gli studenti hanno affossato il regime di Ben Alì in Tunisia, ci hanno provato con quello di Bouteflika in Algeria, hanno spedito altrove Mubarak e stanno vilipendendo ferocemente il superuomo Gheddafi, in uno slancio concreto di audacia che non si vede in Occidente dal 1968.
Senza l’avallo di partiti e sindacati, quei giovani sud-mediterranei hanno osato contrapporsi ai capi mostrando al mondo l’arrogante fragilità del potere. Questi giovani sono diventati il Mediterraneo ribollente, mentre noi si resta basiti a guardare, attoniti si sostiene via Facebook il loro scendere in piazza, indignati si discute sulla legittimità dei nuovi governi.
Dal Maghreb la ribellione si è estesa a quasi tutta l’area arabizzata e all’Albania, da dove in molti non vogliono partire più per questa vecchia Europa democratica e razzista, in cui secondo René Gallissot “i migranti di oggi tentano un riposizionamento [individuale] in società che sono strutturate in Stati sociali nazionali”: quindi dove le garanzie di vita sono assoggettate alle necessità di sopravvivenza del capitalismo. I nuovi maghrebini scolarizzati hanno scelto forme collettive di protesta al posto di una scommessa individuale, di un progetto migratorio fallimentare verso l’Europa più respingente della storia. Non vivono più l’urgenza di integrarsi in un’Europa neonazionalista e socialmente rigida, nella quale gli strati sociali circoscrivono l’ambito dei propri interessi costruendo artifici retorici di forte presa sull’opinione pubblica passivizzata: i neo-razzismi, gli indipendentismi, i separatismi.
Al contrario, i giovani italiani vivacchiano nel loro assordante mutismo da imbe(ci)lli, nonostante le similitudini materiali che dovrebbero portarli a un’unità d’intenti con i sud-mediterranei. C’è passività, rassegnazione e attendismo, contornati da una forma acuta di quiescenza intellettuale, talvolta interrotta da poche eccezionali voci fuori dal coro.
C’è da registrare una minima, (ri)nascente vivacità analitica tra i venticinque-trentacinquenni che oltrepassa la linea dell’indignazione ma senza suscitare troppo clamore. Parlo di figure come la blogger Eleonora Voltolina, che ha scardinato con un saggio il camorristico sistema degli stage non pagati, o del non più giovanissimo Enrico Brizzi, tornato a colpire nel segno con rinnovata puntualità grazie al suo ultimo lavoro (La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio).
Restano però casi isolati, che non riscrivono ancora la grammatica di quel vuoto sociale e intellettuale che dolorosamente Alain Touraine ci ha consegnato poche settimane or sono (Benvenuti nel vuoto sociale, in alfabeta2). Perché, dietro di essi, c’è ancora l’arido deserto dell’incoscienza giovanile italiana.
Leonardo Palmisano
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