L’idea dell’apocalisse
In questi giorni il Giappone – e, in modi certo più blandi, il resto del mondo – è percorso dalla “Grande Paura”. Attraversato dall’idea dell’apocalisse. A noi il compito di parlarne. E magari di discuterne. E così si (ri)apre la rubrica “inpratica”, diretta da Christian Caliandro.
Fa specie scoprire, per esempio, che a fronte delle enormi difficoltà e privazioni materiali, alcuni giapponesi, più o meno giovani, scoprano il desiderio fortissimo di immaginazione e di narrazione: “Più dei manga, ora vorrei un romanzo, un racconto di fantasia perché la realtà è troppo dolorosa. Sono forse egoista?” (tweet di shohei0308, 13 marzo 2011).
Hiroki Azuma è autore di Generazione Otaku, un’indagine a tutto campo, di carattere anche sociologico e antropologico, della più vasta, profonda e articolata “sottocultura di massa” del pianeta. Otaku designa letteralmente la cultura dello “stare in casa”, nutrita di iper-alfabetizzazione tecnologica e comunicazione costante: “L’assenza di comunicazione è diventata un pensiero fisso. Una sensazione mai provata per quelli come me abituati a essere eternamente connessi. Ero in luogo aperto, insieme a molte altre persone, ma mi sentivo improvvisamente solo. Come se il black-out nelle comunicazioni fosse già un principio di morte” (La Repubblica, 14 marzo 2011).
Non è un caso che questa produzione culturale si nutra fin dalle sue origini – oltre che naturalmente della grande tradizione artistica e grafica nazionale: Hokusai docet – di un immaginario apocalittico, per così dire, “di prima mano”. A partire da Godzilla, infatti, fino a Mazinga, Kyashan e Ken il Guerriero, tutti i mostri, i robot e gli eroi popolari della cultura manga si inseriscono in un orizzonte di distruzione termonucleare. Un orizzonte al tempo stesso di memoria (Hiroshima e Nagasaki) e di possibilità. Uno scenario.
Il capolavoro di questo genere, Akira (Otomo 1988), basato sul fumetto omonimo, è ambientato in una Tokyo sconvolta dalla terza guerra mondiale (Neo-Tokyo), infestata da bande di teppisti in motocicletta e tormentata da una gravissima crisi politico-economica e da un conflitto sociale senza precedenti.
Non sappiamo ancora che ne sarà di Fukushima (già trasformata peraltro in luogo semi-mitico, ritratta in quelle fotografie che sembrano già immagini di un futuro disumano, vibranti di uno sfarfallio malevolo e intrise di una minaccia tanto spettrale quanto incombente) e di questo splendido, civilissimo popolo (un po’ troppo ossessionato, per la verità, dai concetti di vergogna e di colpa – al punto da fornire per giorni informazioni incomplete, se non palesemente false, su un incidente che rischia di trasformarsi in catastrofe globale).
Sappiamo però che, accanto alla ricostruzione fisica, materiale, procederà spedita quella immateriale. Gli artisti e gli autori giapponesi ci hanno allevato negli scorsi decenni dal punto di vista intellettuale e immaginario; ci hanno addestrato a visualizzare la fine. Insieme, ovviamente, alle versioni occidentali della post-apocalisse: dall’inferno dantesco di Zombi (Romero, 1978) alle strade di morte di Mad Max 1 e 2 (Miller, 1979 e 1981), dai devastati dedali urbani di 1997: fuga da New York (Carpenter, 1981) all’Armageddon effettivo di The Day After (Meyer, 1983). E poi le declinazioni più recenti, dal remake Dawn of the Dead (Snyder, 2004) al modesto I am legend (Lawrence, 2007), fino alle serie tv Jericho (CBS 2006-08) e The Walking Dead (AMC 2010-), basata sulla graphic novel di Robert Kirkman.
I nuovi artisti sapranno dare forma ai loro e ai nostri terrori collettivi, creando un mondo pauroso e fantastico, oscuro e terminale. Che rifletta secondo modalità meravigliosamente crude le nostre civiltà in perenne declino e in continuo disfacimento. Immaginare visivamente e narrativamente la fine, nel 2011. Ma prima: sopravvivere.
Christian Caliandro
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