Tutte le polemiche di Palermo
Una posizione che fa e farà discutere quella di Sergio Troisi, critico d’arte siciliano. In un recente articolo su Repubblica passa in rassegna il sistema dell’arte siculo, parla di giovani artisti, delle loro tecniche, della pittura. Salvando pochissime cose bollando la città come luogo in gran declino. Fargli un’ampia intervista, era il minimo.
Succede che Sergio Troisi, tra le più autorevoli voci della critica siciliana, scrive un articolo su La Repubblica. “La città degli artisti”, lo intitola. Parla dei giovani artisti locali, dell’art system isolano malaticcio, di quello che c’è e di quello che ci dovrebbe essere. E succede che scoppia il caos. Chi s’arrabbia, chi fa polemica, chi travisa e chi invece approva. Usando come gancio questo recente approfondimento, apriamo una discussione con l’autore sul tema “arte contemporanea in Sicilia”. Un’intervista un po’ pungente, per sfatare luoghi comuni e togliere di mezzo qualche equivoco.
Con il tuo articolo hai fatto arrabbiare un po’ di persone. Il che è già un bel risultato. Ma questa Città degli artisti è davvero messa così male?
Certamente è messa male Palermo. Gli anni dell’amministrazione Cammarata hanno visto un movimento involutivo di chiusura progressiva, di mancanza totale di progettualità. Il sistema dell’offerta culturale ne ha ovviamente risentito, via via si è andato depauperando.
In quasi dieci anni hai salvato solo due cose: una bella mostra di video con artisti non siciliani, Girato a Palermo, e il docufilm Palazzo delle Aquile (di Savona, Porto, Sparatore). Non ti pare di esser stato un poco tirchio? O forse… snob?
Questa è una lettura parziale e fuorviante del mio articolo. I casi che citi erano soltanto due esempi di un diverso sguardo narrativo. Per il resto, menzionavo come opere suggestive alcuni dipinti di Andrea Di Marco, istituivo un parallelo tra Bazan e alcuni passi di Giorgio Vasta, riferivo positivamente dell’interesse dell’ultimo lavoro di Adalberto Abbate esposto a Riso, ed elogiavo la forza poetica di un video di Domenico Mangano. Queste considerazioni erano articolate in una più complessa lettura del panorama attuale. Per esempio: è vero che il registro della stilizzazione grottesca è divenuto un modo privilegiato del racconto della città? E se è così, questo è casuale o registra in parte almeno una rinunzia? Mi sarei aspettato una discussione su questi punti, piuttosto che un risentimento stizzito per non essermi prodotto in un elogio incondizionato dell’esistente.
La pittura, croce e delizia dell’isola: forse una vocazione, di certo una tradizione. Tu sembri abbastanza negativo nei confronti di questa “pittura che si accampa nelle gallerie e in alcuni spazi pubblici”, posti in cui si vedono poche installazioni e poco video. Cos’è, il vecchio discorso sulla presunta morte della pittura e sul video che, dopo 50 anni, sarebbe ancora avanguardia?
Il panorama della pittura mi sembra meno vitale di quello proposto da fotografia e video. Non è un problema di tecniche, né tanto meno di avanguardie. Però è sintomatico che autori palermitani che lavorano con altri mezzi fatichino a trovare in città ribalte adeguate: la mostra prevista alla Gam di Domenico Mangano mi dicono sia saltata, un artista attivo con successo a New York come Francesco Simeti riceve incarichi a Milano o Bologna, ma non a Palermo. Quello cittadino è un sistema pigro, nel quale la pittura è uno scenario rassicurante, per il collezionismo locale e per le gallerie.
Non volevi mica dire, allora, che per essere artisti cutting edge bisogna per forza occuparsi di Brigate Rosse, di public art, di filosofia del linguaggio o architettura, scegliendo magari la via del neo-concettuale? Perché a qualcuno era parso un po’ così.
È ovvio che il problema investe il linguaggio. Non bisogna necessariamente occuparsi di public art o scegliere il neo-minimal o il neo-concettuale. Ma che la scena cittadina sia così sbilanciata verso la pittura in termini di offerta espositiva rende il panorama, lo confermo, parziale e monco. Non è responsabilità di chi dipinge, naturalmente, ma il risultato è uno sguardo dimidiato sulla città.
Marginalità, disperazione, rovine, sguardi visionari, atteggiamento nostalgico e antistorico. Siamo ancora in piena epoca Ciprì e Maresco?
La forza prepotente delle rovine palermitane è che sono ancora una presenza ingombrante dei nostri percorsi e metafora di una condizione presente non solo palermitana. Anche se, dopo tanti anni, rischiano fatalmente di trasformarsi in cliché. È accaduto anche con Palermo Shooting, il film di Wenders.
L’orizzonte a cui guardare sono il Premio Furla o il Premio Italia al Maxxi? Non vedi – fatte le dovute eccezioni – un po’ di maniera anche da quelle parti?
I manierismi sono dappertutto, nella pittura come nella fotografia, nel video, nelle installazioni o negli interventi site specific che poi, spesso, specific non sono affatto. Al Premio Italia alcuni lavori erano addirittura irritanti, altri invece – come quelli di Rossella Biscotti e dei De Serio – mi sono sembrati di notevole interesse.
Tu sei pessimista rispetto alla proposta culturale del contesto artistico siciliano (e come darti torto!). Però, mi pare che – per quel poco che c’è – la scena sia piuttosto in linea con quel che accade altrove. Siamo certo debolucci sul fronte internazionale…
La debolezza sul fronte internazionale è soprattutto una carenza di confronti. È vero che gli artisti viaggiano, si spostano, osservano, e in questo, come dici, il loro lavoro è spesso in linea con quanto accade altrove. Ma la possibilità di stabilire una circolazione di sguardi – gli occhi degli altri su di noi – mi sembra cruciale per cogliere quanto, nel nostro orizzonte contemporaneo, sia sfaccettato, multiplo, contaminato.
In particolare, parliamo di musei. È verissimo che parte del problema sta nell’assenza di spazi pubblici adeguati, spesso per motivi politico-economici. Vedi il caso di Riso, che pur essendosi dotato di una struttura trasparente ed efficiente è stato abbandonato dalle istituzioni (tagli finanziari clamorosi e la faccenda dell’autonomia che non si sblocca). Oppure la GAM, che solo ora sta tentando di intraprendere una via progettuale…
Riso si è mosso in questi due anni in maniera attenta, non soltanto con mostre di caratura internazionale come Essential Experiences, ma anche con l’attività di S.A.C.S. La GAM non ha una fisionomia centrata sul contemporaneo, e anche questa serie di sei mostre in programma ha un grosso limite nel fatto che muove da una iniziativa privata…
Sì, dietro questo progetto GAM ci sono dei privati, imprenditori, associazioni culturali, galleristi. Ma nel momento di vuoto politico che sta affondando i nostri musei, che cosa ci resta? L’iniziativa dei privati è un’ancora di salvezza. La questione, semmai, sta in quello che ci mette l’Istituzione, in termini di coordinamento, economie, progettualità, continuità, organizzazione…
Il problema infatti non è l’apporto dei privati, anzi ben venga. Il problema è che la regia delle iniziative e i criteri delle scelte devono avere quella trasparenza che solo l’istituzione pubblica è in grado di garantire, in quanto impermeabile a finalità promozionali e (sia pure indirettamente) di lucro. Io non sono sicuro che tutto questo si sia verificato per le mostre in programma alla GAM. Certo, gli artisti individuati per questa rassegna sono, tutti, di interesse indiscutibile. Ma il motore privato che ha determinato queste scelte rende la GAM poco più che un contenitore che ha accettato di ospitare un progetto “chiavi in mano”. All’istituzione pubblica si deve chiedere di più: un orizzonte di selezione ampio e motivato, un progetto insomma che qui non si vede.
Per chiudere, Catania vs Palermo. E non è solo un fatto calcistico. Come li vedi i due maggiori assi dell’isola, in quanto a ricerca contemporanea e sviluppo del sistema?
Non mi appassionano i derby calcistici, figurati quelli culturali. Se vuoi dei nomi riferiti all’area catanese, comunque, eccome due: Canecapovolto e Loredana Longo. Non sono pittori… È grave?
Helga Marsala
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