Barbero si dimette, ma ci perdiamo tutti
Più che analizzare le cause delle ormai quasi certe dimissioni di Luca Massimo Barbero dalla direzione del Museo d’arte Contemporanea di Roma, abbiamo tentato di osservare quali possono essere gli effetti. Economici, politici, di immagine internazionale e di ruolo della città. Perché una gestione sciatta della cultura in una città strategica come Roma ha conseguenze su tutti gli operatori, sulla qualità e la remunerazione del loro impegno, sui posti di lavoro stessi che la cultura è in grado di generare.
Sulle cause ora è impossibile soffermarci. Le cause possono essere tante. Chi sta dalla parte del direttore dice che non è possibile lavorare con risorse insicure, che vanno elemosinate di volta in volta da una soprintendenza governata da una personalità, diciamo, complessa come quella di Umberto Broccoli. Chi sta dalla parte del direttore dice che non si può gestire un museo della portata del Macro senza avere quello che tutti i musei seri hanno: un modello di governance potabile, per lo meno una fondazione. Chi sta dalla parte del direttore dice che non si può essere un curatore reputato in Italia e nel mondo e vedere il tuo assessore di riferimento che viene al museo sottobraccio a un altro assessore per pigliare le misure degli spazi al fine di allestire una mostra di un parente di quest’ultimo. Perché questo, a stare alle indiscrezioni sia chiaro, sembra essere diventato l’orizzonte del Macro.
Chi sta dalla parte dell’amministrazione dice, per contro, che il direttore sta facendo la commedia, sta facendo il difficile, sta piantando grane mettendo la scusa dei quattrini quando in realtà gli stanziamenti sono stati fatti. Con lo scopo di andarsene da vittima (o da eroe) verso altri lidi da cui avrebbe avuto già profferte irrinunciabili.
In questo momento, insomma, lasciamo da parte le cause e cerchiamo di metter giù un po’ di mente fredda su quelli che potrebbero essere gli effetti delle dimissioni di Luca Massimo Barbero dalla poltrona di direttore del Macro, così come anticipato un paio di settimane fa da Artribune e così come confermato quest’oggi dalle pagine di cronaca romana di Repubblica. La vogliamo fare facile? Beh, effetti semplicemente disastrosi, a nostro parere.
Effetti disastrosi con conseguenze, gravi, su tutto un sistema, quello dell’arte contemporanea a Roma, che stava finalmente strutturandosi in maniera professionale in questi ultimi anni. Che innestandosi sulla struttura istituzionale e di grande visibilità internazionale dei due grandi musei (Maxxi e, appunto, Macro), stava gemmando realtà di tutto rispetto, dalle associazioni alle fondazioni. Che stava creando economia, generando turismo di qualità, producendo nuovi posti di lavoro. Un sistema in crescita, anche in controtendenza rispetto alle altre città italiane e anche rispetto ad alcune imbolsite altre capitali europee.
Trattare il Macro come una patetica location, come un ridicolo gettone di scambio da regalare a chi porta in cambio pacchettini di voti, come spazio dedicato alla “creatività della città” (!), gestito da “un comitato di indirizzo” o magari da “un artista affiancato da una figura amministrativa” è una ignominia. Significa, peraltro, aver investito decine di milioni di euro per la realizzazione di un edificio e poi snaturarne il ruolo, le funzioni, i contenuti. Significa dunque averli buttati al vento, quei soldi. Roba da Corte dei Conti, altroché mostre e inaugurazioni.
E se vogliamo mettere da parte – tanto ai nostri amministratori non gliene può importare di meno – la sconfinata figura di merda internazionale che la capitale del Paese fa interrompendo la direzione artistica di un fondamentale museo a sei mesi dalla sua apertura (mezzo mondo tiene gli occhi puntati su Roma, da un annetto a questa parte), non possiamo non accennare al tradimento dei tanti operatori che sull’indotto di questo museo hanno investito.
Cosa penseranno, per esempio, le tante gallerie che hanno aperto attorno all’area del Macro a via Nizza confidando su una gestione civile e non becera dello spazio? Che fine faranno gli investimenti che i privati hanno profuso nella creazione di un distretto culturale a via Reggio Emilia e dintorni? Cosa penserà Giovanni Giuliani, che giustamente ha impiantato la sua fondazione nei pressi del Macro Testaccio? E i galleristi, come il Ponte o VM21, che si sono spostati o si stanno spostando in quel distretto? E tutte le realtà che stanno per aprire? Nuove fondazioni sono in apertura, nuovi programmi di residenza, nuovi musei privati, nuove interessanti gallerie, come abbiamo documentato. Con che spirito porteranno avanti le procedure per aprire in autunno? Insomma, stavamo mettendocela tutta, per una volta facendo anche sinergia, per convincere il mondo dell’interesse di un sistema-città che in questo momento è l’unico sistema-citt italiano, sul contemporaneo, spendibile a livello internazionale. Ce la stavamo mettendo tutta per raccontare sul panorama internazionale la nostra affidabilità, il nostro impegno, la nostra energia. E ora?
L’amministrazione comunale ha una vaga idea delle conseguenze sul benessere, sul turismo, sui posti di lavoro qualificati, sull’immagine, sul ruolo internazionale della città che ha un museo che funziona decentemente rispetto a uno che è la caricatura di se stesso? Se questa vaga idea non ce l’ha, dovrebbe provare a farsela, sempre se avanza il tempo tra il patrocinio di atroci Biennali di Scultura e l’installazione dell’ennesimo cartellone pubblicitario abusivo in zona vincolata. Perché se poi i sondaggi danno il sindaco Alemanno su abissi che a confronto la Moratti è una macchina da voti, non si può far finta di sorprendersi. Gestire la cultura in maniera ottimale, oramai, genera consensi. E non pochi. Tra qualche decina d’anni, lo comprenderanno anche i politici.
Massimiliano Tonelli
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