Il Maghreb, l’Occidente e l’arte (davvero) rivoluzionaria
Libia, Siria, di nuovo l’Egitto, qualcosa in Algeria, forse anche l’Arabia Saudita. È ancora poco intenso in questi mesi il dibattito circa la definizione di quello che sta avvenendo nel cosiddetto mondo arabo moderato. Rivolte? Rivoluzioni? Ribellioni senza guida? Ribellismo giovanile? Esplosioni culturali e/o materiali? Inpratica, per voce di Leonardo Palmisano, continua a guardare al di là degli stanchi confini nazionali.
I fatti che hanno sconvolto e stanno sconvolgendo il Medio Oriente alludono a un’assenza obiettiva di coordinate interpretative nel mondo occidentale, di paradigmi che possano orientare il dibattito politologico. A registrare quest’assenza di pensiero sono i necrologi dell’intelligenza occidentale, i manifesti mortuari della critica affissi sulle pareti traslucide dei palinsesti televisivi.
A tentare invece una difficile definizione ci stanno pensando i Wu Ming, che dopo aver giustamente liquidato i movimenti arabi di piazza che hanno anticipato di un decennio quelli odierni – “Oggi è abbastanza evidente che quei movimenti, lungi dall’essere vere e proprie rivoluzioni, erano piuttosto campagne politiche, in alcuni casi non-violente, studiate per rovesciare una maggioranza parlamentare forte e autoritaria”, scrivevano in Disintossicare l’evento, ovvero: come si racconta una rivoluzione? – si sono lungamente soffermati sui nuovi, arrivando a cogliere, in qualche misura, una delle poche cifre importanti della storia contemporanea: le narrazioni alternative e alternate, che nel loro prodursi sono già rivoluzionarie.
Nel mondo arabo è in atto un’interruzione narrativa, non ancora un nuovo racconto, in una fase in cui la politica occidentale tutta costruisce velleitariamente un vaniloquente restyling di se stessa. Se ci pensiamo bene, che cosa sono, peadr esempio, le retoriche televisive di Roberto Saviano sulla macchina del fango, se non una normale, media e insufficiente presa d’atto cerebrale di una condizione propria delle democrazie occidentali: la loro necrosi acuta nei gangli del potere mediatico?
In verità, ciò che poco viene detto e che meriterebbe di esser ripreso in considerazione è che quel che resta dell’Occidente è la violenza. Laddove la democrazia latita, si ritira in convento o in preghiera di fronte all’avanzata della novità magrebina, gli apparati militari imperano indisturbati, con il normale avallo delle risibili risoluzioni Onu. Non una violenza qualunque, ma una vera e propria violenza millenaristica di Stato.
Si legge in controluce che la pretesa occidentale di essere l’unico e solo mondo della produzione di senso politico per il globo si sgretola piano piano. Sembra di essere di fronte a quel decesso collettivo di cui parla Ian McEwan in Blues della fine del mondo, ma così in fondo non è. Non è nel Mediterraneo del Sud, non è nel mondo arabo più largo, non è in America Latina, non è nemmeno in Africa Centrale, dove finanche le donne iniziano a innescare piccoli e medi cortocircuiti, esplosioni di avversità alla rigidità dei sistemi simbolici di dominio. E così non sarà probabilmente più nell’arte, se essa saprà nell’immediato futuro re-interpretare il reale, prevederne gli sviluppi, orientarne le crisi, demolirne i sensi comuni per preconizzarne di nuovi. Smetterla di piantonare la violenta controrivoluzione culturale occidentale.
Arte, che il vivissimo web decreterà come tale, contro il necrofilo mezzo televisivo. È già arte la messa di video delle rivolte in atto: un profluvio di installazioni permanenti sul web, di indicazioni di futuro; un accelerato collage cinematografico e documentaristico che attiva la solidarietà, la comprensione, l’intelligenza visuale e quella riflettente. Arte che non si cura più delle parole, della meditazione querelante dei mostri dell’intelligenza occidentale, perché è già oltre il limite temporale della retorica, oltre le lentezze sacerdotali delle contro-macchine del fango, oltre le nostre indecenti lallazioni giornalistiche.
Arte, che ammucchia corpi, per dirla con Antonin Artaud, al di là della coscienza e del cervello, per mera esigenza di vita.
Leonardo Palmisano
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