Questioni “marginali”. Paladino, la montagna e la transenna
La "Montagna di Sale" di Mimmo Paladino non cessa di far discutere. Certo, c'è stato il fatto di cronaca dei tifosi milanisti che l'hanno vandalizzata. Ma prima? Le transenne che la circondavano, che ruolo avevano? Difendere l'opera o chi la osservava? Una riflessione che si prende il tempo di non rimanere strettamente legata all'evento.
In quel sistema linguistico che è ogni opera d’arte degna di tal nome, molto si gioca nelle sue zone marginali, nelle propaggini. Nei suoi cascami, si deve anzi dire, accordandosi alla visione postmoderna e lasciandosi dietro le spalle la logica modernista. Per un’opera d’arte pubblica o collocata nello spazio urbano, i margini sono poi il momento principale. Sono il luogo in cui il discorso si svolge, dove spazio pubblico e opera copulano beffardamente ma tenendo fermo come unico scopo l’interesse della collettività, un interesse che passa quasi sempre per la ridefinizione dello stato delle cose, per il superamento di paure e diffidenze; per il disancoramento e lo stravolgimento percettivo piuttosto che per la conferma di modi di percepire consolidati.
Premesse ovvie, si dirà, che ci conducono al soggetto di questo articolo: la Montagna di sale di Mimmo Paladino, che in questi mesi campeggia in piazzetta Reale a Milano. Ebbene, quest’opera è privata dei margini. Sono occultati da un elemento che è al tempo stesso elemento fisico e segno cauterizzante, totalitario a livello estetico e forse, come si dirà, anche su un piano politico: la transenna che circonda l’opera.
Sono ben note le vicissitudini della Montagna prima di giungere in piazzetta Reale (anzi, sono l’unica cosa nota all’opinione pubblica, e come di consueto l’unica registrata dai quotidiani nazionali). Dapprima prevista in piazza Duomo, poi estromessa con la scusa di un parere della sovrintendenza, utilizzato per far posto a iniziative commerciali ed elettorali e per la mostra (remunerativa, invece che dispendiosa come la Montagna) curata dal designer Santachiara, mostra peraltro brillante e portatrice di vivacità, ma questo non è il punto. L’opera di Paladino è infine approdata davanti al Palazzo Reale, che ospita la personale dell’artista.
Le dimensioni ridotte della piazza che accoglie l’opera la avvicinano allo spettacolo più che all’arte, ma l’effetto è comunque rivitalizzante rispetto al panorama visivo milanese (si osservi la montagna luccicante sotto il sole). Ma, come anticipato, il colpo di scena avviene ai piedi dell’opera: è incomprensibilmente circondata dal segno totalitario cui si accennava, una transenna. Può sembrare una questione marginale, ma è invece una fondamentale questione di margini, di confini e quindi di dialogo.
I margini della Montagna semplicemente non esistono, l’interazione anche solo simbolica tra cittadinanza e opera è espunta dall’agenda, e la cifra dell’installazione diventa il distanziamento. Dalla vivificante espansione dell’arte nella città si piomba nella dimensione del simulacro, dell’immagine “di rappresentanza” più che esperita: la virtualità dell’opera d’arte che la trasforma in segno intercambiabile, impulso elettronico che non necessita né di essere sperimentato, né al limite di esser visto di persona. Un’installazione all’aperto circondata da una transenna ha lo stesso valore (quasi nullo) di una riproduzione su una rivista o su un computer.
Ciò che il Comune ha fatto, dunque, non è niente di concreto. Quello che conta è sapere che a Milano è stata posta un’opera d’arte nei pressi di piazza Duomo, parlarne come si fa in quel chiacchiericcio che avvolge l’arte contemporanea sulle pagine dei quotidiani e nelle code davanti alle mostre di cassetta.
Chi pensasse che la transenna sia un elemento neutro e irrilevante, pensi invece alla portata simbolica di tale recinzione, sintomatica di alcuni episodi nella conduzione pubblica dell’arte a Milano, e in Italia. Le amministrazioni devono giustificare il fatto – sporadico – di esporre l’arte contemporanea, e sono spesso ben felici di non esporla affatto. Quando lo fanno, soprattutto nella Milano laboratorio del populismo e del reazionariato nazionale, la neutralizzano giustificandola con richiami alla continuità con l’arte antica, inventati di sana pianta. Oppure la giustificano prendendo le distanze dalle loro stesse iniziative con farseschi dibattiti in giunta (si pensi al dito di Cattelan) oppure con segni come la transenna davanti alla Montagna.
E qui si giunge al punto: quella transenna non protegge affatto l’opera dal vandalismo (nella precedente presentazione a Napoli fu ben accolta l’abitudine dei cittadini a portarsi a casa un mucchietto di sale come rito benaugurante). Va invece intesa come protezione del cittadino dall’invasione dell’arte contemporanea, temuta perché considerata incomprensibile, umorale e violenta, oggetto di una rimozione che tende a negare lo spirito del nostro tempo, che l’arte d’oggi rispecchia com’è suo compito.
Si risponderà che ci sono motivi di sicurezza, che se qualcuno salisse sulla montagna potrebbe farsi male, ma a livello simbolico la transenna parla chiarissimo: sosteniamo l’arte contemporanea ma non esageriamo, osiamo proporvi una bizzarria come l’enorme mucchio di sale ma ci premuriamo di tutelarvi; dedichiamo una mostra a un artista contemporaneo, ma lo scegliamo già storicizzato e sottolineiamo con viltà il legame della sua arte con l’antico, con gli eterni archetipi umani, con una spiritualità prêt-à-porter (ciò che è avvenuto nelle dichiarazioni pubbliche sulla mostra, con buona pace di Paladino che in questa occasione è parso pronto a qualsiasi compromesso, dallo spostamento alla transenna).
SI badi, non s’intende qui criticare la mostra di Paladino. Nonostante risulti un po’ indigesto il tentativo di risanare l’immagine dell’artista (selezionando per la retrospettiva opere che faccessero dimenticare le sue prove meno ispirate e quelle chiaramente commerciali nelle quali ha negli anni abbondato), e nonostante la conferenza stampa abbia avuto l’aspetto chiaro di una riunione di famiglia, clientelista e familista (oltreché improntata alla già descritta normalizzazione verbale della poetica di Paladino), la mostra risulta di evidente valore.
Ma il segno costituito dalla transenna non va sottovalutato. È simbolico di alcune storture della politica culturale milanese, per fortuna compensate da iniziative come la coraggiosa mostra Fuori!, perfettamente in linea con la gestione illuminata e “progressista” di Marina Pugliese, direttrice del Museo del Novecento. Un’incongruenza del genere della transenna è figlia di amministratori, curatori e artisti (non tutti, per carità e per fortuna) che sono fermi a concezioni primitive dell’interazione fra arte e società. Ancora si sorprendono, e pensano che anche noi siamo pronti a sorprenderci, del semplice fatto che un’opera contemporanea sia posta in una piazza. Che poi essa sia congelata dal distanziamento di cui sopra poco importa, nella loro concezione.
E non manca una conferma più immediatamente percepibile come concreta di questa deriva. Basta fare pochi passi e giungere all’Ottagono della vicina Galleria Vittorio Emanuele. Qui è atterrato come un pachiderma in cristalleria il superkitsch aeroplano decorato da Paladino, evidente operazione pubblicitaria irrispettosa del suo contesto, che con mossa promozionale è stata inserita a pieno titolo nel “percorso” della mostra. Ed è significativo che l’opera donata da Paladino al prossimo museo d’arte contemporanea di Milano sia proprio l’aereo, che opera d’arte non è. Una donazione truffaldina, annunciata con grande enfasi dall’amministrazione comunale.
Post scriptum. La cronaca irrompe. Concluso l’articolo, passo davanti alla Montagna e la vedo danneggiata (si scopre che i colpevoli sono i tifosi del Milan). Ma ciò paradossalmente conferma le tesi scritte qui sopra. Come si vede, la transenna non ha effetti pratici, e ha fallito miseramente nel proteggere l’opera. Paladino dichiara di accettare il danneggiamento, considerandolo possibilità connaturata all’esposizione di un’opera nello spazio pubblico. E va sottolineato che le adunate di massa per festeggiare scudetti e coppe sono esattamente l’idea di esperienza dello spazio pubblico che ha chi ci amministra. La fruizione consapevole e non cauterizzata di un’installazione all’aperto, no. Tutto torna.
Stefano Castelli
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