So long, sir Denis. Ricordando Mahon
Cento. Come la città natale del Guercino. E come gli anni di Sir Denis Mahon, il più importante studioso del pittore emiliano, spentosi il giorno di Pasqua nella sua casa londinese. Storico, collezionista e mecenate che fece risplendere il Barocco italiano.
Quando un grande se ne va, la retorica dei necrologi assume spesso toni iperbolici. Nel caso di Denis Mahon, l’enfasi è quasi d’uopo, adeguata allo spirito di quel Barocco cui consacrò i suoi studi (e il suo patrimonio) e che contribuì a rivalutare dopo secoli di oblio e pregiudizi.
Cent’anni compiuti lo scorso novembre (e festeggiati alla National Gallery), scomparso il giorno di Pasqua nella sua città natale, Londra, Mahon è in realtà una figura difficile da inquadrare: storico? Collezionista? Mecenate? Di tutto, di più: quanti studiosi d’arte potrebbero infatti vantare d’essere stati, ancora in vita, protagonisti di un bestseller? Eppure a lui era accaduto, con Il Caravaggio perduto di Jonathan Harr. Una delle tante paternità caravaggesche siglate dall’ipse dixit di Mahon, quella della Cattura di Cristo di Dublino, insieme alla seconda versione dei Bari, fiutata a un’asta nel 2006 e oggi all’Ashmolean Museum di Oxford; oppure alla Chiamata di Pietro ed Andrea dalle collezioni reali di Hampton Court, vista pochi anni fa nell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini; al San Giovanni Battista dei Musei Capitolini, individuato negli anni ‘50 nell’ufficio del sindaco di Roma.
E, caso strano, mezzo secolo più tardi fu sempre sir Denis a “ritrovare” un altro San Giovanni, ascritto stavolta ad Annibale Carracci: si riannodava così il filo tre i due pittori che – entrambi attivi nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo – erano già stati accostati nel suo libro-cult Studies in Seicento Art and Theory (1947), volume in cui, fra l’altro, veniva riportato alla luce il concetto di bellezza ideale espresso da Giovan Battista Agucchi nel suo negletto Trattato.
Scorrendo la biografia dello storico, si nota una costante: tele annerite o abbandonate, coperte da patine di sporcizia e incuria sotto le quali si annidano capolavori. Scoperte romanzesche, sì, ma supportate da anni di studi, riscontri documentari, un fine intuito (e, permetteteci, un discreto “fattore c”). Capacità che fecero saltare la mosca al naso a qualche collega: accade ad esempio quando Mahon iniziò a interessarsi di Nicolas Poussin, mettendone in discussione la cronologia fissata da Anthony Blunt, all’epoca il più accreditato esperto del maestro francese. E pare che perfino Roberto Longhi, pur riconoscendo la perspicacia del britannico, sopportasse obtorto collo le sue incursioni nel campo caravaggesco.
Ma è soprattutto al Guercino che sir Denis dedicò la propria vita. Fu per lui che Mahon, messo sulle sue tracce da Nikolaus Pevsner, compì i primi viaggi in Italia e pose la prima pietra della sua collezione, acquistando nel 1934 Giacobbe benedice i figli di Giuseppe, seguito due anni dopo da Elia nutrito dai corvi. Con l’Emilia Romagna, poi, lo studioso conservò sempre un legame “speciale”: memorabili le mostre progettate negli anni ’50 e ’60 con Cesare Gnudi, dedicate ai Carracci, all’Ideale Classico del Seicento in Italia e, ovviamente, al Barbieri; un rapporto rimasto saldo e fertile anche quando alla guida della Soprintendenza felsinea è subentrato Andrea Emiliani. Ed è alla Pinacoteca nazionale di Bologna che Mahon ha donato sette opere della sua raccolta, fra cui il Cristo coronato di spine di Guido Reni, il San Giovanni Battista in un paesaggio di Annibale Carracci, un Paesaggio del Domenichino e, fra le tele dell’adorato Guercino, la Madonna del Passero e la Sibilla che tiene un cartiglio.
Perché, se qualcuno gli ha rimproverato di essere stato un po’ troppo “generoso” nelle attribuzioni, altrettanta prodigalità gli va riconosciuta per le donazioni. Fin dal 1999 era noto che, post mortem, la sua collezione sarebbe entrata a far parte del patrimonio nazionale del Regno Unito, distribuendosi tra la National Gallery, l’Ashmolean Museum di Oxford, il Fitzwilliam Museum di Cambridge e la National Gallery of Scotland di Edimburgo. Un lascito vincolato però a una delle grandi battaglie condotte da sir Denis: la gratuità dei musei. Per inciso, già un paio d’anni prima che fosse ufficializzato il testamento, il tesoro di Mahon aveva intrapreso una tournée (approdata anche in Italia, alla Fondazione Memmo di Palazzo Ruspoli), utile a raccontare sessant’anni di preziosi incontri e colpi di fortuna, come Il Ratto di Europa di Reni, acquistato nel 1945 per cento sterline e oggi stimato milioni di euro. Inutile dire quanto la risalita in termini di quotazioni della pittura secentesca sia in debito verso lo studioso, che, per la National Gallery di Londra, fece anche da consulente: si deve a lui l’acquisizione dell’Adorazione dei pastori di Reni e la Salomé con la testa del Battista del Merisi.
God bless you, sir Denis. Perché è vero che amavi Guercino, ma ad avercelo, un occhio come il tuo…
Anita Pepe
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati