Intruso a chi? In difesa del ciborio di Casamari
È opportuno spendere qualche parola su un articolo a firma di Sergio De Benedetti, pubblicato su Libero del 5 maggio scorso e intitolato “Via l’intruso dall’abbazia. Va smantellato il ciborio che rovina Casamari”. Continuiamo a scandagliare l’attualità, senza rincorrerla.
Nell’intervento di Sergio De Benedetti, dopo un esordio da gothic novel (“Trecento anni fa un corpo estraneo si insinuò nella chiesa facente parte dell’Abbazia di Casamari”) e un rapido cenno alle origini dello stupendo complesso abbaziale, l’autore si sofferma sul momento in cui, nel 1711, il cardinale Annibale Albani “regalò a Casamari un enorme baldacchino di marmi policromi dove venne sistemato l’altar maggiore della chiesa di egual fattura. Regalo più infelice […] non si poteva fare”. “Intendiamoci”, prosegue De Benedetti, “l’enorme ciborio non è poi così brutto, ma stride clamorosamente nel contesto mirabile dell’austera costruzione, risultando un ibrido che colpisce negativamente anche chi non è un esperto ma, semplicemente, ha solo un po’ di buon gusto”.
Di fronte a tanto sfregio, la conclusione dell’articolo non può che assumere la forma di un pressante appello: “Parte dunque da queste colonne di ‘Libero’ l’appello a tutte le persone che amano l’arte affinché la splendida cattedrale [sic] di Casamari ritorni al suo stile originario nella sua interezza, promuovendo ogni iniziativa volta a rimuovere il ciborio settecentesco e riportare al centro l’antico altare maggiore […]. Tutte le persone di buon senso, compreso l’attuale abate, padre Silvestro Buttarazzi, ne sarebbero assai felici”.
La prima reazione a queste righe si condensa in un istintivo e sacrosanto macchissenefrega? Con tutti i problemi di cui soffre il patrimonio storico-artistico italiano, anzi con tutti i guai che si trova a fronteggiare, più in generale, il nostro Paese, è il caso di sprecare inchiostro, e con tanto ardore, per un povero baldacchino un po’ “fuori luogo”? Bizzarro, oltretutto, che l’attacco sia sferrato dalle colonne di un quotidiano notoriamente favorevole al governo in carica, che di scempi veri nei confronti dei nostri beni culturali e ambientali ne perpetra ogni giorno.
Verrebbe quindi voglia di liquidare l’intervento di De Benedetti con un sorrisetto di sufficienza e passare oltre. Alcuni elementi obbligano tuttavia a soffermarsi sulle parole del giornalista. Innanzitutto, il pezzo è infarcito di errori in merito al ciborio, che non è “settecentesco” né era “destinato alla chiesa dei Santi Apostoli di Roma”. Da questa illustre basilica, invece, l’opera proviene, e costituisce dunque, insieme ai frammenti dell’affresco absidale di Melozzo da Forlì, divisi tra il Quirinale e i Musei Vaticani, e ai marmi posti nelle adiacenze della chiesa, una delle poche sopravvivenze dell’arredo sacro del tempio precedente al completo rifacimento della basilica (1701). Il ciborio oggi a Casamari fu progettato, nel 1666-68, da un certo Carlo Rainaldi, e le sculture che lo ornavano (in parte disperse, in parte ancora ai Santi Apostoli) furono realizzate da un certo Domenico Guidi: il baldacchino “non così brutto” è insomma un’espressione assai significativa del barocco romano maturo [1].
Ma peggiori degli errori sono certe idee propugnate nell’articolo, obiettivamente “eversive” rispetto alle attuali pratiche di tutela e persino al buon senso. La proposta di smantellare il ciborio si configura come un tardivo frutto di una cultura del ripristino architettonico che “infiniti lutti addusse” al patrimonio storico-artistico: l’ondata di rimozione delle aggiunte barocche in tante chiese medievali, infatti, avrà anche portato, in qualche caso, alla scoperta di lacerti di affreschi, ma in genere ha prodotto danni enormi, sia per la perdita di opere spesso di pregio, sia per la conseguente distorsione nella percezione degli edifici sacri (entrando in questi interni raschiati si ha l’impressione che negli ultimi cinquecento anni non sia “successo” nulla), sia perché i restauri hanno inventato spazi certo più simili a quelli originari di quanto non lo fossero gli ambienti barocchi, ma comunque non hanno potuto ricreare gli interni medievali.
Senza voler generalizzare, questi ultimi erano molto più colorati e “chiassosi” di quel che di solito si pensa, caratterizzati com’erano da elementi, quali affreschi, monumenti sepolcrali, altari, che sono andati in gran parte perduti nel corso dei secoli successivi. San Francesco ad Assisi o Santa Caterina d’Alessandria a Galatina restituiscono l’immagine di uno spazio sacro medievale in maniera assai più fedele di quanto non facciano le nude pareti di sasso di una chiesa ripristinata. La stessa chiesa di Casamari, peraltro, ha subito – come ricorda De Benedetti – questo “trattamento” e quindi l’eventuale asportazione del ciborio sarebbe in linea più con l’aspetto imposto dai restauri degli anni ‘50 che con lo “stile originario” dell’edificio.
All’insensatezza di fondo della proposta si sommano altri aspetti inquietanti. Pericoloso è fare appello a un criterio puramente soggettivo qual è il “buon gusto”. Pericolosa e superata l’idea di godimento estetico unicamente come fruizione di un tranquillizzante accordo di stile tra le parti, e non anche come percezione di giustapposizioni e contrasti. Pericolosa infine l’idea che tale godimento vada anteposto a tutto, e quindi anche alla dimensione storica e alla stratificazione di testimonianze che ne è espressione.
Il mondo dei beni culturali pullula, si sa, di appelli (per la salvaguardia di questo o quel bene, per l’erogazione di finanziamenti ecc.); per una volta c’è da sperare che quello lanciato dalle colonne di Libero cada nel vuoto.
Fabrizio Federici
[1] Sull’opera, cfr. da ultimo Cristiano Giometti, Domenico Guidi 1625-1701. Uno scultore barocco di fama europea, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, scheda 24.S, pp. 188-190.
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