L’Italia secondo Bice Curiger
No, non è una nuova polemica fra la direttrice della 54. Biennale di Venezia e Vittorio Sgarbi, curatore del Padiglione Italia. Parliamo invece di quegli italiani che non sono nel calderone e che sono stati selezionati per la mostra internazionale. Un nutrito e valoroso manipolo. Per Artribune lo racconta Ludovico Pratesi.
Il primo impatto con l’arte italiana alla Biennale è subito all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni, nel cuore dei Giardini, ma per trovarla bisogna guardare sul soffitto. È lì l’opera di Maurizio Cattelan, composta da 2.000 piccioni impagliati che osservano gli spettatori della mostra dall’alto, con quel pizzico di sarcasmo tipico di un pensiero mordace e tagliente. Ma i piccioni del Maurizio nazionale, che tornano a posarsi a Venezia per la seconda volta dopo il 1997, quando Cattelan venne invitato da Celant a esporre nell’allora Padiglione Italia (bei tempi) insieme a Ettore Spalletti ed Enzo Cucchi, hanno portato decisamente fortuna alla squadra tricolore, che con 11 presenze non sfigura affatto nel contesto sociopolitico e neoconcettuale della bella Biennale di Bice Curiger.
Nulla da dire: gli italiani presenti a Illuminazioni fanno tutti un’ottima figura, dai maestri ai giovanissimi, senza macchia e senza paura. A cominciare dal più giovane di tutti, Luca Francesconi, che presenta Europa 3000, un’installazione composta da tre manichini femminili in marmo nero e bronzo, circondati da oggetti poveri e banali, quasi a rappresentare la parodia del consumismo in un’ideale paesaggio futuribile, tra una memoria consunta e un desiderio depresso e senza speranza. Un lirismo che ritroviamo, ma declinato attraverso la sola presenza della propria voce, da Giorgio Andreotta Calò nell’installazione sonora Ritorno, che rompe il silenzio del Giardino delle Sculture realizzato da Carlo Scarpa, dove due anni fa echeggiavano le note della canzone cinese di Roberto Cuoghi. Le parole dell’artista, scandite da pause significative, si riferiscono al viaggio a piedi che lo porta da Amsterdam a Venezia, e sottolineano in maniera intensa ma appartata la necessità di mantenere un rapporto attivo con la propria dimensione fisica, colta attraverso la sensibilità dell’artista nomade impegnato nell’avventura del cammino.
Sempre ai Giardini, le voci registrate degli operai di Porto Marghera animano la saletta triangolare che ospita Estman Radio Drama, il dramma radiofonico di Marinella Senatore basato sull’incontro tra i lavoratori delle fabbriche e il popolo della Biennale, trasmesso sia in Biennale che da una radio libera locale. Sempre all’idea della trasmissione fa riferimento The Innocent Abroad, l’installazione all’Arsenale di Elisabetta Benassi, composta da una serie di 9 lettori di microfiche, che permettono al pubblico di vedere il retro di centinaia di fotografie tratte da archivi di quotidiani e che ripercorrono la storia del Novecento. Una sottile riflessione sulla natura dell’informazione e sulla sua possibile manipolazione, colta dall’artista in maniera volutamente ambigua ma efficace.
Sempre all’Arsenale sfilano le venti pitture su stoffa di Giulia Piscitelli, che compongono l’opera Spica: una serie di spighe di grano dipinte con la candeggina ispirate dal nome di una stella della costellazione della Vergine. Una pittura concepita come segno al negativo, immagine fantasmatica che vive in una dimensione concettuale e simbolica, tipica della sensibilità affilata dell’artista.
Immateriale ma non priva di suggestione l’installazione all’Arsenale di Meris Angioletti, Stanzas, tutta giocata sulla relazione tra luce e voce, con una struttura narrativa che indaga il rapporto tra creazione cinematografica e cura mentale. Sempre all’Arsenale, Monica Bonvicini invece ha usato una sala per cogliere una suggestione tratta da un’opera di Tintoretto, la Presentazione della Vergine, per dar vita a un’installazione incentrata sull’elemento della scala, ripetuta in vari materiali riflettenti, in modo da creare un paesaggio di strutture architettoniche riflettenti, lucide e lussuose, ma al contempo stranianti e ambigue nella loro forzata spettacolarità.Infine, il cubo di plastilina colorata di Norma Jeane, intitolata Who is Afraid of Free expression?, che ripropone i colori della bandiera egiziana in omaggio alla rivolta di piazza Tahrir al Cairo, permette al pubblico di appropriarsi dell’opera d’arte per scrivere o disegnare sui muri della piccola sala ai Giardini, in modo da creare uno spazio libero, dominato da una tensione creativa libera e incondizionata, senza regole né parametri.
Anche senza il conforto di due maestri come Luigi Ghirri e Gianni Colombo, i nostri giovani ormai possono camminare da soli per imporsi sulla scena internazionale come presenze forti e consapevoli, che non hanno più nulla da invidiare ai loro colleghi d’oltralpe.
Ludovico Pratesi
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