Vista da fuori. La Biennale sulla stampa internazionale
Una prima rassegna stampa ve l’abbiamo fornita praticamente in diretta durante i giorni della vernice della 54. Biennale di Venezia. Ora, con un poco di calma in più, vi proponiamo una nutrita selezione, commentata da Alfredo Sigolo. Perché lo sguardo dall’esterno e dall’estero non è mica da sottovalutare.
Sull’HuffPo, abbreviazione del celebre internet newspaper statunitense Huffington Post, il critico di Art in America e Parkett G. Roger Denson si schiera con Bice Curiger a favore del modello veneziano dei padiglioni nazionali, contro i molti che lo giudicano rappresentazione di un nazionalismo anacronistico e superato. L’idea di Denson è invece che la questione dell’identità nazionale sia oggi argomento quanto mai scottante e attuale, come dimostrano le recenti rivolte dei Paesi africani e mediorientali, ma anche lo spirito dominante in molti Stati emergenti.
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Anche Andrew McKie sul Wall Street Journal individua il tema dell’identità come centrale in questa Biennale e si sofferma sull’installazione dell’egiziano Basiony, morto durante la rivoluzione di gennaio, e su quella di Mike Nelson del Padiglione inglese. Poi però il corrispondente si lascia andare a toni più leggeri, dimostrando di essere più incuriosito dalle bizzarrie del pubblico che dalle opere, dal visitatore mimetizzato tra rami e piume a quello coperto di sacchi della spazzatura fino all’homeless griffato Gucci.
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Sempre sul WSJ, Mijuk Goran ricorda come Bice Curiger è ritenuta tra i personaggi di maggior potere del sistema internazionale, al 10° posto nella nota Power100, la classifica annuale stilata da ArtReview. La sua mostra ILLUMInations muove da un concetto antico e universale che ha soprattutto il pregio di riannodare i fili con la storia, addirittura partendo da Tintoretto. In questo sta la novità introdotta dalla Curiger, che con il suo progetto pone finalmente le basi per un nuovo dialogo con il passato, interrotto dell’euforia degli anni ’90.
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Lui alla Biennale non c’era mai stato. Forse anche per questo il Telegraph sceglie di dar spazio alla prima volta del critico Alastair Sooke, che paragona il circo dell’arte a Laputa, l’isola magnetica incontrata da Gulliver nei suoi viaggi, un mondo a parte abitato solo da intellettuali e vip, impegnati a chiedersi l’un l’altro cos’han visto, per poi concentrarsi alla caccia del party serale più esclusivo. Questa Biennale non è poi così diversa dalle altre, solo una tappa del disco volante che si posa di città in città per mettere in scena il suo spettacolo sempre uguale a se stesso.
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Lo sapevate che il carro armato di Allora e Calzadilla, capovolto e usato come tapis roulant per il Padiglione Usa, è in verità inglese? Lo confidano gli stessi artisti a Christopher Livesay sul National Public Radio di Washington, rivelando che quelli americani erano tutti impegnati. Quanto poi alla provocazione antimilitarista, niente paura, casca a pennello nella strategia dello smart power inaugurata da Barack Obama e Hillary Clinton per ammorbidire e rendere meno antipatica l’immagine internazionale dell’America, senza per questo rinunciare a esercitare la propria leadership.
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Un Jerry Saltz sottilmente amareggiato è quello che descrive l’imbarazzo di pubblico e curatori connazionali al cospetto dalla cacofonica installazione del Padiglione Usa. È l’Afghanistan tradotto a Venezia, il fitness club dell’inferno – sentenzia bruciante sul New York Magazine il noto critico – ma Allora e Calzadilla sono riusciti a dar forma all’opinione negativa che l’America dà di sé all’estero, forse anche a esorcizzarla.
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La diaspora di un popolo, dei suoi giovani artisti, e il bisogno di ricostruire un’identità sono raccontati dalla delegazione irachena alla corrispondente del Guardian Charlotte Higgins. L’Iraq torna alla Biennale dopo un quarto di secolo con un grande fardello sulle spalle, ma anche con la speranza di un futuro migliore, da conquistarsi tra mille difficoltà.
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Tra i blog ospitati dal New York Times vale la pena di segnalare il diario visivo di Christoph Niemann, noto grafico per lo stesso quotidiano statunitense nonché illustratore di successo di libri per bambini. Nella serie di schizzi, ecco le sue 72 ore da turista in laguna, tra assalti di piccioni, lunghe code e lunghi yacht, doppio cornetto a colazione e triplo Bellini in piazza San Marco.
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Sul suo blog Carol Vogel dà conto invece dei disagi provocati dall’improvviso sciopero dei vaporetti, scopre che a far concorrenza allo shopper feticcio che inneggia alla libertà dell’artista cinese Ai Wei Wei c’è quella dorata di Hany Armonious del Padiglione Australiano e ci fa sapere che Cattelan non ha provveduto di persona ad abbattere i 2 mila piccioni installati a Palazzo delle Esposizioni, ma va dicendo di essersi servito di un’impresa di forniture teatrali.
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Tra i contributi più ficcanti non poteva mancare quello di Roberta Smith, che sottolinea come a Venezia sia andata in scena una vera competizione tra star internazionali del campo dell’environment, l’installazione ambientale: da Mike Nelson della Gran Bretagna a Christoph Schlingensief per la Germania, da Christian Boltanski della Francia a Thomas Hirshhorn per la Svizzera la partita è avvincente, con un outsider, il Padiglione della Repubblica Ceca, dove un semisconosciuto trentenne, Dominik Lang, allestisce una sorta di macchina del tempo per riscattare l’opera scultorea del padre. Quella di Lang è riflessione profonda sul tempo ma anche sulla capacità delle opere d’arte di risvegliarsi dall’oscurità e dall’abbandono cui spesso sembrano condannate. Proprio questo confronto tra passato e presente alla Smith appare il vero punto nodale di questa Biennale, che ha nella sala di Tintoretto l’episodio più emozionante.
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Di nuovo la Smith riserva un bell’affondo spietato per il Padiglione Italia, descritto come il punto più basso della Biennale, installazione ridicola e kitsch, una mostra che sarebbe uno scandalo nazionale, se l’Italia non ne avesse già abbastanza…
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Quanto politica è questa Biennale? Molto, secondo Gareth Harris e Jane Morris, che su Art Newspaper ricapitolano: di politica trattano esplicitamente i padiglioni di Polonia, Egitto, Israele, Danimarca e Stati Uniti, ma in modo indiretto lo fanno anche UK, Grecia, Svizzera, Belgio, Svezia e Spagna, basta leggere i testi dei curatori come la greca Maria Marangou o il belga Luc Tuymans. La libertà di stampa, le lotte per i confini, quelle per l’identità, per le molte personalità politiche e capi di stato attesi in visita a Venezia, gli spunti di riflessione non mancano. Auspicando che non si facciano distrarre troppo dal contorno glamour della Biennale, tra feste, ricevimenti e star dello spettacolo.
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89 padiglioni nazionali, 37 mostre collaterali, decine di eventi paralleli, il tutto in una cornice di lusso e di sfarzo sfrenato: la Biennale di Venezia sembra immune alla crisi che attanaglia la cultura in molte parti del mondo. Così Roderick Conway Morris sulle colonne del New York Times, che poi scende nel dettaglio giudicando perversa l’iniziativa di privare San Giorgio Maggiore della sua naturale installazione site specific, l’Ultima Cena di Tintoretto, per allestirvi quella di Anish Kapoor, che violenta l’architettura palladiana con i suoi tubi e strutture d’acciaio. Morris segnala le statue-candele di Urs Fischer tra le opere più efficaci, mentre boccia senza attenuanti il progetto di Mike Nelson, che ha richiesto la rimozione del tetto del padiglione ed è costato la cifra spropositata di 300mila sterline.
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Gayford Martin per Bloomberg afferma che questa non è la migliore né la peggiore delle Biennali di Venezia, ma probabilmente la più grande di sempre. Ci sono nuove nazioni rappresentate (Andorra, India, Iraq, Arabia Saudita) ma, anziché affermarsi le diversità, sembra rinsaldarsi una vaga genericità e omogeneità. Il fatto è che l’arte contemporanea è un linguaggio che nel volgere di pochi anni si è trasferito da un piano esclusivamente occidentale a una dimensione pan-globale, a uso e consumo del sistema di mercato che lo alimenta.
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Il medium e il messaggio vanno di pari passo in questa 54. edizione secondo Laura Cumming del Guardian. Dominante è l’attualità politica, ma più che il grande carro-scarafaggio rovesciato degli Usa è esemplare il progetto di Luc Tuymans per il Padiglione belga: Angel Vergara con la sua pittura tenta di fermare e dare un senso al flusso incessante di notizie. Il suo fallimento genera un inedito espressionismo astratto che si oppone alla pervasività del mezzo televisivo.
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Il Padiglione italiano ideato dall’ex ministro della cultura (sic!) e performer TV Vittorio Sgarbi è un fiasco, un ammasso indistinto di cose meno che mediocri, talmente orribile che può essere inteso solo come una provocazione. La stroncatura dell’inviato del Boston Globe Sebastian Smee è feroce.
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Sul LA Times si riprende la critica al modello veneziano dei padiglioni nazionali, inadatti a rappresentare la realtà contemporanea transnazionale. Così accade che l’israeliana Yael Bartana possa essere invitata a rappresentare la Polonia o che due dei quattro artisti ospitati dall’India non vivano lì o ancora che vi siano padiglioni collettivi come quello dell’Asia Centrale o quello dell’America Latina. Il progetto Borderless Bastards dello svedese Fia Backström per il Nordic Pavilion punta chiaramente al superamento dei recinti nazionali, invadendo gli spazi esterni di transito con le sue sculture.
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Celebrità e super-ricchi, sono questi i volti protagonisti della Biennale 2001 secondo Ben Hoyle dell’Australian, che raccoglie alcune osservazioni autorevoli, come quelle del curatore Mark Coetzee, il quale rileva come sempre più il mercato abbia estromesso le istituzioni, a esclusivo vantaggio dei magnati, o del direttore dell’Institute of Contemporary Art di Londra Gregor Muir, che lamenta una perdita di purezza della manifestazione lagunare, divenuta un’enorme fiera, una piattaforma di marketing.
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A Venezia trionfa la Pop Culture. A sostenerlo è Peter Goddard sul Toronto Star, che cita tra gli esempi i Padiglioni francese, statunitense, canadese, ma solo per mettere a fuoco il vero bersaglio, la mostra ILLUMInations e la sua curatrice, Bice Curiger, che scrive di prendere come suo punto di partenza privilegiato la cultura popolare. Secondo Goddard, l’arte contemporanea è vittima di questa strana forma di nostalgia che affonda le sue radici negli anni ’60 e che costituisce un fardello che impedisce l’avvento di nuove avanguardie e che perpetua uno storicismo semplicistico e un conservatorismo convenzionale privi di reale urgenza critica.
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Le Monde, il maggiore quotidiano transalpino, affida a Philippe Dagen il compito di sollevare alcuni punti critici senza affondare troppo il colpo. Può dirsi un tempo di ILLUMInazioni quello dominato da crisi, guerre e paure? Alla Biennale si fronteggiano due approcci antitetici, quello degli artisti che si ispirano alla storia dell’arte recente, e non riescono a liberarsene, e quello di coloro che non hanno occhi se non per il tempo presente.
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Di nuovo dalle colonne de Le Monde arriva la stilettata al Padiglione Italiano di Sgarbi. A metterla a segno è Harry Bellet, che descrive gli autori esposti come una massa di dilettanti di strada ai quali incomprensibilmente si è riusciti ad associare qualche artista vero come Adami o Pizzi Cannella. L’Italia crocifissa di Gaetano Pesce è il simbolo perfetto del padiglione nel quale Sgarbi ha sepolto i suoi artisti.
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Alfredo Sigolo
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