La finzione fondamentale
Immaginate l’invenzione – coraggiosa, fortunosa e contrastata, come tutte le vere invenzioni – di un nuovo alfabeto. E, con esso, di un nuovo linguaggio. Queste lettere, bellissime e funzionali, vengono progettate per costruire nuove parole, nuove frasi, e poi nuovi discorsi. Questo è lo scopo: perciò gli inventori si sono dati da fare, al di là delle dichiarazioni roboanti e degli intenti apparentemente aggressivi e minacciosi.
Potete benissimo immaginare in questi termini la storia delle prime avanguardie: come l’elaborazione di un alfabeto artistico e concettuale a disposizione delle generazioni future. Solo che, nei decenni e nel secolo successivi, le cose non sono andate proprio come previsto. La storia ha preso decisamente un’altra piega. La gran parte dell’arte contemporanea degli ultimi quarant’anni, infatti, ha scelto – consapevolmente o inconsapevolmente – di mettere quelle lettere su un piedistallo, invece di servirsene per pensare e comunicare in un altro modo. Quelle stesse lettere sono diventate, più che monumenti, oggetti di culto, idoli da venerare. Nessuna interazione creativa con essi, ma solo una distanza reverente e timorosa.
Così, l’arte contemporanea si è avvicinata sempre più, nelle sue sembianze e manifestazioni, a un culto misterico ed esoterico [1]. In questo modo ha accentuato uno dei suoi tratti da sempre specifici e costitutivi: l’esclusività come elemento generatore del senso di appartenenza. È del resto un aspetto che possiamo verificare facilmente a uno qualsiasi degli eventi a cui ci capita di partecipare in qualità di attori/operatori: inaugurazione, fiera, biennale, conferenza.
L’esclusività è la matrice di questo culto, e al tempo stesso ciò che lo sgancia e lo separa nettamente dal mondo esterno. Come se fosse la versione postmoderna di quella “impotente e autoreferenziale cultura sorboniana che aveva perso da tempo il contatto con le arti e con le botteghe di artigiani e commercianti” [2], e contro cui Descartes oppose il suo “metodo”.
Eppure, c’è da dire che l’arte ha avuto sempre moltissimo a che fare con la mitopoiesi, con la costruzione di racconti e figure universali. Fritz Graf ad esempio spiega: “Il mito non è il testo poetico attuale, ma lo trascende: è il soggetto, una trama fissata a grandi linee, con personaggi abbastanza fissi, che il singolo poeta può variare solo entro certi limiti […] il mito vuole esprimere qualcosa i valido sulla nascita del mondo, della società e delle sue istituzioni, sugli déi e il loro rapporto con gli uomini, in breve su tutto ciò che determina l’esistenza umana” [3]. Ma si può onestamente dire che il settore addetto oggi alla produzione di mitografie sia l’arte contemporanea? Voglio dire, sono più efficaci Matrix o Star Wars, la serie tv The Wire o il videogioco L.A. Noire nella creazione di miti contemporanei, oppure una qualsiasi mastodontica e pretenziosa installazione?
Non che non ci siano delle valide e potenti eccezioni, per carità. Per fortuna, continuano a esistere e a resistere. Ma queste opere assomigliano sempre di più al personaggio di Napoleone Wilson di Distretto 13: le brigate della morte (1976). Sono cioè costrette in una tale condizione di minorità da dover giocare sempre in difesa (quando, normalmente, dovrebbero essere all’attacco). Stanno lì, sempre defilate, a modo loro eroiche ma un pochino sconcertate. Hanno costantemente l’aria di chi sembra dire a se stesso: “Ma chi me l’ha fatto fare…”. E soprattutto: “Sono nato fuori tempo“.
Christian Caliandro
[1] Cfr. F. Graf, I culti misterici, in Salvatore Settis (a cura di), I Greci: storia, cultura, arte, società, vol. II, t. 2, Einaudi, Torino 1997.
[2] P. Sloterdijk, Descartes, in Caratteri filosofici (2009), Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 43.
[3] F. Graf, Il mito in Grecia (1985), Laterza, Roma-Bari 2007.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #1
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