È il festival jazz più cool d’Italia, e si avvicina al quarto di secolo ma, come si suol dire, non dimostra i suoi anni. Anzi, col tempo Timeinjazz ha guadagnato in freschezza e interdisciplinarità.
L’edizione numero ventiquattro prosegue il percorso ideale dedicato ai quattro elementi naturali inaugurato due estati fa. Dopo Acqua e Aria, è la volta della Terra, intesa sia in senso proprio, come suolo, terreno, e quindi campi, vita, nutrimento, sostentamento, sia in senso più ampio di patria, nazione, o addirittura di globo, mondo, pianeta, natura. Anche se ormai le estati italiane pullulano di feste, festival e festeggiamenti di ogni genere, l’appuntamento a Berchidda, nel cuore della Sardegna, resta unico per il coinvolgimento di un intero paese che per sette giorni si mobilita completamente, trasformando un appuntamento musicale in un’esperienza unica, dai concerti in cima al monte Limbara che sovrasta il paese, alle interminabili nottate al jazz club.
Quest’anno il mitico “direttore artistico” Paolo Fresu ha convocato le personalità più diverse della “terra del jazz”, dall’81enne Ahmad Jamal, il mago del pianoforte, al gruppo Les Tambours de Brazza (che hanno suonato direttamente sulla nave che li ha portati a Golfo Aranci), al duo Ballaké Sissoko e Vincent Segal, che uniscono la magia della kora (l’arpa tradizionale africana) alle sonorità classiche del violoncello, a Fresu stesso che, a chiusura del festival, il 16 agosto, promette di “suonare la terra” (cosa non impossibile per lui che, nell’edizione del 2009, suonò letteralmente l’acqua riempiendo la sua tromba in un performance indimenticabile).
L’arte e gli artisti visivi quest’anno interagiscono in pieno con la musica, a cominciare dalle “pietre sonore” di Pinuccio Sciola, le famose sculture tratte da pietre di granito sardo e lavorate con tagli particolari, “suonate” dal percussionista Pierre Favre. Ma è soprattutto il PAV (Progetto Arti Visive) che affianca Timeinjazz, ad avere quest’anno grande rilevanza con la mostra Dalla Terra al Cielo, a cura di Giannella Demuro, che (insieme ad altre rassegne di video, fotografia, ed esposizioni in esterni) è allestita nei locali dell’ex caseificio del paese.
Appena messo piede negli spazi postindustriali di questo edificio, singolarmente in contrasto con il paesaggio mediterraneo circostante, l’atmosfera cambia. Sembra quasi di stare in una kermesse berlinese, dove gli artisti delle più varie tendenze restituiscono un ritratto della terra e dell’uomo piuttosto sconcertante, policefalo, plurivoco. Così, si passa dalla terra come memoria nell’opera-valigia di Marco di Giovanni (che raccoglie la terra del suo paese di origine), nei frammenti naturali di Franceso Carone, nelle poetiche polaroid di Maria Magdalena Campos-Pons, alla Terra come “globo”, nei mappamondi affollati di “poveri cristi” (letteralmente, dei piccoli crocefissi) di Dario Ghibaudo, nella doppia proiezione di alba e tramonto che si fondono nel video di Zimmerfrei, e in tanti altri lavori tutti da scoprire nei labirintici spazi di questo edificio, che promette di diventare una nuova kunsthalle isolana.
Ma il pezzo che fra tutti si fa ricordare – e che ci ricorda che la Sardegna, anche se è una gran bella terra, rischia di essere avvelenata (come succede a tanti posti del nostro ex-Belpaese) – è quello di AZ.namusn.arT (leggere a rovescio per capire), collettivo di giovani artisti che, infilatisi le tute gialle alla Greenpeace, si sono recati nel Poligono di Quirra e hanno prelevato campioni di terra inquinata, col risultato di farsi fermare dai Carabinieri con l’imputazione di “procurato allarme”. Non male, per degli artisti. Quando poi, la sera dell’inaugurazione un carabiniere in servizio di guardia si ferma davanti alle fotocopie della denuncia, c’è un momento di panico: non è che i ragazzi rischiano un secondo fermo per esposizione vietata di documenti ufficiali? Falso allarme, stavolta. Ma tant’è: può succedere anche questo, se l’arte si mette a fare sul serio.
Marco Senaldi
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