Le avventure della critica
Nel mondo dell’arte non sono in vendita soltanto le opere - e gli artisti - ma anche i “critici” (si deve pur vivere). Dietro un testo “critico” c’è da supporre a ragione che si nasconda un ghost writer. Non c’è più tempo per conoscere. E così va scomparendo una figura-chiave del mondo dell’arte. Anzi, di quella che era l’avanguardia.
“Il critico d’arte è una specie in via d’estinzione”, nota con rammarico Hal Foster. Giornalisti che fanno i “critici” d’arte, artisti, curatori, appassionati d’arte d’ogni specie, tutte figure che riempiono un vuoto e per i quali, spesso, l’investimento teorico è superfluo. È sufficiente vedere il vocabolario impiegato per rendersene conto. Da cui ne consegue che, a volte, i critici, sopravvissuti alla disintegrazione della loro funzione, diventano un ostacolo per gli “addetti ai lavori”.
Questa nuova specie di critico è diventato semplicemente colui che indica l’opera. Con le parole della linguistica si direbbe che il critico è un deittico vivente: assolve la funzione di indicatore: “questo”, “quello”, “qui”. Insomma, ci dice dove e quando vi è arte e perché comprarla, non perché e come. La categoria paradigmatica di “contemporaneo” è infarcita di testi che non hanno alcun fondamento teorico. Testi che non hanno il coraggio della scelta di fronte al mercato, figuriamoci del “punto di vista”. Testi strumentali che non hanno nulla a che vedere con la critica in quanto produzione di senso. L’arbitrario trionfa ovunque e il gesto storico-critico del pensiero (o archeologico) naufraga di fronte a un generico giornalismo rifilato come “critica”. Testi nati dalla sollecitazione dell’opportunismo editoriale, allo stesso modo di come si scriverebbe per una griffe. Infatti, spesso il linguaggio utilizzato è da ruffiani o pubblicitario. Più che di critica si tratta di strizzare l’occhio. È il trionfo di una visione secondo cui le cose stanno così perché così si dice e si fa.
D’altra parte, come si dice altrove: l’arte non è forse entertainment? “La maggior parte dei critici, assorbiti dal loro oggetto”, osservava Filiberto Menna, “dimenticano di interrogarsi sulle ragioni e le implicazioni della propria attività”. Fino alle soglie degli anni ’80, l’arte era sinonimo di sperimentazione e rivolta. Oggi abbiamo solo l’arte convenzionale, senza rivolta. L’avanguardia era un’autocritica dell’arte nella società borghese. Con le debite eccezioni, oggi abbiamo l’arte che celebra i miti del neoliberismo. E il mercato ci si specchia con soddisfazione, perché vi riconosce quello che pensa di sé: non chiede che lo si critichi per quello che è, ma che lo si rappresenti quale crede di essere, ovvero spettacolo. Il culto dell’estremo nell’arte assolve a questa funzione. Ma se l’arte non è più essenziale nei confronti del mondo (ammettiamolo per ipotesi), allora anche l’artista non lo è più e a maggior ragione il critico.
Se si pensa semplicemente che anche uno storico dell’arte del livello di Panofsky nutriva dubbi sull’arte d’avanguardia, si capisce quanto la funzione della critica militante sia stata decisiva in un periodo in cui l’arte moderna era osteggiata da ogni parte. La critica fungeva da dinamite. Apriva varchi nel muro di ottusità borghese che soffocava l’arte d’avanguardia. Apollinaire, ad esempio, costeggiò i fauves e i cubisti difendendoli dagli attacchi dei “critici” arruolati all’arte pompier cha a un Matisse preferivano un Boldini. Quando Versailles nel 2009 scarta una mostra di Dani Karavan per preferirgli Jeff Koons, riproduce la stessa dinamica che conobbe Apollinaire un secolo fa. Insomma, la critica che una volta veicolava strumenti di analisi, di conoscenza e di contestazione si è trasformata, in età postmoderna, in strumento di adattamento allo status quo.
D’altra parte, non è un caso che alcuni critici della scuola di Greenberg (Krauss, Foster, Bois, Buchloh), in una loro recente e dotta pubblicazione sull’arte del XX secolo, ignorino del tutto fenomeni quali la Transavanguardia e il Neo-espressionismo tedesco degli anni ’80. Per loro si è trattato del momento in cui i discorsi affaristici sull’arte precedevano l’arte stessa, al punto da programmarla.
C’è una storia della critica, ma non una scienza. La critica produce sensi; per questo non è una scienza che invece indaga sui sensi, scoprendone le leggi. Questa condizione a-scientifica è stata spesso colmata dal saggio praticato da scrittori e filosofi, e a volte anche da storici. Nata contestualmente alla modernità – dopo la svolta filosofica fatta dalle tre critiche di Kant – la critica non poteva che essere una rifondazione del sapere e dello sguardo. Mirava a un’autonomia transdisciplinare.
Ma di fronte allo stato di cose attuali, la “critica”, rinunciando alla sua autonomia, non è altro che pura finzione. È per questo che implica il potere o l’accordo più o meno dichiarato di un pubblico che è stato educato alla rinuncia al proprio diritto di contestazione di fronte allo sciocchezzaio che spesso è portato a vedere.
Marcello Faletra
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