Ripensare un giornale cartaceo ha a che fare con tante vicende. O forse con tante sfaccettature della medesima vicenda che va inquadrata sotto il tag di “crisi dell’editoria”, laddove ‘crisi’ è intesa in accezione positiva, nel senso di perturbazione non necessariamente nefasta. Il cambiamento in cui siamo insomma, che per qualcuno è drammatico e per qualcuno è foriero di opportunità.
La crisi dell’editoria, il futuro dell’editoria, il web, il digital, la carta. Più la crisi si intensifica, più se ne parla. A margine poi ci si rende conto che il settore è, appunto, un settore. Industria, di questo stiamo parlando. Ci sono stamperie, operai, cartiere, distributori, edicolanti e fattorini, oltre che giornalisti, grafici e fotografi. Nascono – ora che forse è troppo tardi – perfino momenti di dibattito pubblico e di approfondimento intellettuale specifici sul giornalismo culturale, che di questo settore è il comparto che ci compete. Il bel Festival del Giornalismo Culturale di Pesaro, Fano e Urbino si è da non molti giorni chiuso nelle Marche e anche durante i giorni di Artissima, a Torino, ci sono moltissimi momenti di confronto all’insegna della domanda: quale sarà il futuro dell’editoria culturale?
Una domanda che però non prevede una risposta. O che magari ne prevede tante – troppe – e tutte una diversa dall’altra. La cosa strabiliante, insomma, è che nessuno c’ha capito un fico secco. La industry non ha idea di dove si andrà a parare e tra paywall e accordi (leggi: abbracci mortali) con Facebook si procede decisamente a tentativi. E se l’industria editoriale in senso ampio non ha idee chiare sul proprio futuro, figurarsi l’industria dell’editoria culturale.
La sensazione, insomma, è che tutti spariremo. Anche qui nel senso positivo, sia chiaro: smetteremo di fare quel che facciamo per fare altre cose, per fare cose nuove, per mettere a frutto altrove quello che abbiamo imparato qui. Perché probabilmente questa modalità di assemblaggio e distribuzione dei contenuti andrà a svanire, anche se non sappiamo quando e anche se non sappiamo se questo riguarderà la nostra o la prossima generazione. In attesa di evaporare, tuttavia, ci siamo detti che bisognava farsi cogliere dal trapasso in grande spolvero. Eleganza, dignità, pulizia e vigore, anche se sai alla perfezione di vivere in un settore che ha le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i decenni contati. Dopo i boom della freepress culturale, siamo rimasti in pochissimi, dunque per lo meno facciamo bella figura. E allora eccoci: dopo sette anni e mezzo cambiamo i connotati al giornale.
“Dopo i boom della freepress culturale, siamo rimasti in pochissimi, dunque per lo meno facciamo bella figura. E allora eccoci: dopo sette anni e mezzo cambiamo i connotati al giornale”.
I contenuti ce li abbiamo, le idee ce le abbiamo, le buone penne pure. Non è lì il problema. Quando rifai un giornale, il problema è rispondere alla domanda angosciante che recita un po’ così: perché una persona dovrebbe cercarti, aprirti, sfogliarti, perfino leggerti? Cosa la spinge a farlo, quando sa che bene o male troverà ottimi contenuti (magari sulla tua stessa piattaforma) anche online, raggiungibili in qualsiasi istante? La risposta l’abbiamo declinata in tre elementi che sono solo in parte presenti su questa prima uscita (ma diciamo, con maggiore onestà, numero zero del nuovo corso) e che saranno più virali nei prossimi numeri: foto, infografica, illustrazione. Nell’ambito di una grafica rinnovata, ripensata, molto lavorata, all’insegna di contenuti long form.
Che poi è un po’ rinverdire la dimensione artigianale e amanuense dell’impaginare un giornale di carta. Rivendicare la nicchia rispetto ai CMS online che impaginano veloce, bello, fruibile, responsivo e scintillante in pochi istanti con foto, gallery, video. E però… E però quei contenuti lì, che sembrano invincibili, secondo dati non confutabili, sono letti dal 70% delle persone da un telefonino. Con uno schermo piccolo così. Ecco, devi infilarti in quel vulnus. Devi provare a dare un’esperienza di lettura che sarebbe impossibile (o particolarmente forzata) su quel supporto di lettura. Allora ampie e belle foto (magari con servizi appositamente commissionati o nuove rubriche solo fotografiche e di fotoreport culturale e artistico); allora infografiche che chi l’ha detto che sono roba solo da quotidiani e da fogli economico-finanziari? Il data-journalism viene incontro a quello che molti lettori chiedono in termini di chiarezza visuale e immediatezza e non si può far finta di non ascoltare le domande; allora illustrazioni fatte ad hoc per decorare i grandi servizi, perché è una cosa che ti dà respiro, che ti suggerisce unicità, che ti fa godere le pagine come fossero supporti ad autentici artworks, e allora stare con due braccia aperte a sfogliare un giornale grande così assume un significato, una logica. La stessa logica che ha la declinazione cartacea di un grande articolo long form, articolato, superaccessoriato non solo di testo e foto, ma anche di grafiche, liste, classifiche, mappe, citazioni. Assemblato così, allora sì che ha senso leggerlo su carta, perché un mosaico di contenuti simile sullo schermetto del telefonino è una forzatura e qualcosa (molto?) ti perdi.
Ovvio, poi ci sono i contenuti di qualità, le chiavi di lettura che anticipano, le inchieste al momento giusto, la buona scrittura, le firme autorevoli. Ma tutto questo è diventato una precondizione: fa parte della normalità e non della sfida da giocarsi per sperimentare se esistono spazi di sopravvivenza per la carta stampata. Vedremo.
‒ Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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