Istanbul dieci e lode
Apre al pubblico il prossimo sabato, ma noi ci siamo già stati e ve la raccontiamo. Non della Biennale di Lione parliamo, di cui abbiamo già fornito qualche prima impressione, ma della ben più attesa rassegna di Istanbul. A premiarla senza indugi è Ludovico Pratesi. Ecco il suo reportage.
“Non sono la voce dell’autorità. Faccio degli errori. Posso sbagliare”. Queste umili ma significative parole dell’artista cubano Félix González–Torres hanno portato molta fortuna ad Adriano Pedrosa e Jens Hoffmann , curatori di Untitled , la 12esima Biennale di Istanbul, che si rivela una delle migliori mostre internazionali dell’ultimo decennio, superando di gran lunga la sua concorrente veneziana.
Inaugurata oggi 15 settembre e aperta al pubblico dal prossimo sabato fino al 13 novembre in due grandi depositi sul Bosforo, situati a pochi metri di distanza dall’Istanbul Modern Museum, la Biennale nasce all’insegna di un understatement raffinato e consapevole, grazie a un allestimento minimale ma estremamente funzionale. È il giapponese Ruye Nishizawa, confondatore con Kazuyo Sejima dello studio SANAA, che ha suddiviso gli ampi spazi della rassegna in un labirinto di sale di dimensioni e altezze differenti, simili a container industriali rivestiti di acciaio all’esterno e bianchi o grigi all’interno. Ambienti che permettono al visitatore di entrare in maniera agevole nella struttura espositiva concepita dai due curatori, che ha permesso di riunire 500 opere in un percorso puntuale e mai affollato, perfettamente leggibile pur nella sua intrigante complessità, che ci riporta alla poetica di González–Torres, basata sulla fusione tra una forte componente di provocazione politica e un’estrema attenzione all’aspetto formale dell’opera.
È la chiave di lettura di questa biennale, suddivisa in cinque sezioni tematiche accompagnate da 50 personali di artisti di diverse generazioni (con una netta ma dichiarata prevalenza di sudamericani e mediorientali) che permettono di approfondire le singole personalità già presenti negli spazi collettivi grazie a un allestimento pulito e arioso. Opere mai assertive o monumentali, ma cariche di implicazioni etiche, politiche, sociali e antropologiche, interpretate spesso in una chiave metaforica ma incisiva. “Abbiamo voluto evitare di occupare spazi all’interno della città”, spiegano i curatori, “per evitare letture forzate e condizionanti delle opere collocate in contesti impropri, e ci siamo concentrati sulla mostra, qui intesa come principale espressione della pratica curatoriale”. Uno statement chiaro e rigoroso condotto con notevole maestria nelle relazioni tra personali e collettive, ispirate ognuna a un’opera simbolo di González–Torres, non esposta in mostra ma riprodotta nel Companion, la pratica ed esaustiva guida tascabile che accompagna la visita alla Biennale.
Così Untitled (Abstraction) si ispira alla lettura sovversiva e personale dell’astrazione geometrica di tradizione modernista da parte di González–Torres, messa in relazione con opere di artisti di diverse generazioni, da Lygia Clark a Pedro Cabrita Reis, da Ernesto Neto al più giovane Theo Craveiro. Ottime le personali di Renata Lucas, con un pavimento “portatile” di sportelloni di legno, e Dora Maurer, con una serie di opere concettuali fotografiche degli anni ‘70 ispirate al movimento.
Untitled (Ross), che consiste in un mucchio di caramelle legate al peso di Ross Laycock, il compagno di González–Torres morto di Aids nel 1991, precedendolo di 5 anni, rimanda a soggetti come l’amore omosessuale, la famiglia, l’amore, la morte e la perdita, che hanno ispirato The Black and White Diary, l’installazione di Elmgreen & Dragset composta da 364 foto in bianco e nero che ricostruisce la vita di coppie omosessuali in un racconto intimo e profondo, ma anche Last Adress, il video di Ira Sachs che mostra le facciate delle abitazioni di artisti uccisi dall’Aids, e le fotografie di coppie omosessuali scattate negli anni ‘70 e raccolte dal libanese Akram Zaatari in una sala della mostra.
Una delle sezioni più interessanti, ispirata all’opera Untitled (Passport) realizzata da González–Torres nel 1993, tocca il delicato tema dell’identità geografica, politica ed etnica e riunisce artisti come Lara Favaretto, Jorge Macchi, Mona Hatoum e Kutluğ Ataman, e che il giovane artista turco Ahmet Ögüt interpreta con Perfect Lovers, una bacheca che contiene due monete molto simili: una lira turca e due euro.
Dalla politica alla storia con Untitled (History), intesa soprattutto come archivio di memorie ma anche come rilettura di fonti alternative, dove spiccano le opere di Julieta Aranda e Mungo Thomson, accompagnate dalla personale di Jonathan de Andrade, toccante nella sua documentazione sulle residenze moderniste distrutte nella città brasiliana di Recife.
Infine, la mostra si conclude con Untitled (Death by Gun), dedicata agli omicidi commessi con armi da fuoco, in una teoria di opere esplicitamente violente, che accomuna a Chris Burden o Matt Collishaw presenze meno ovvie come Weegee e Matthew Brady, il primo fotoreporter attivo nel XIX secolo sui teatri di guerra.
Insomma, dieci e lode per Pedrosa e Hofmann, che hanno saputo riportare una Biennale a una struttura portatrice di senso, senza negarne la complessità ma riferendola a un contesto storico e concettuale chiaro e definito, fra attualità e storia.
Ludovico Pratesi
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