Agostino aveva capito benissimo il punto: il tempo è un gran bel pasticcio. A considerarlo distrattamente ci pare una ovvietà e, invece, appena proviamo a pensare a che razza di cosa sia, ci accorgiamo immediatamente che ci troviamo di fronte a una matassa complessa. “Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so“: e infatti, proseguiva Agostino, a ben considerare ci accorgiamo che il passato è qualcosa che è com’è proprio perché non esiste più, il futuro ancora non esiste, mentre il presente è così fuggevole da sconfinare immediatamente nel passato.
Sarà per questo che i paradossi legati al tempo ci appassionano tanto: un po’ perché spesso li viviamo, un po’ perché ci riflettiamo di frequente, teorizzandoli magari anche in modo ingenuo, e poi perché ce li rappresentiamo e allora nascono storie, romanzi, film, trattati di fisica e di metafisica. È il caso di un libro e di un film, che è poi anche un’opera d’arte nel senso più nobile del termine. Il libro s’intitola I viaggi nel tempo. Una guida filosofica (Laterza, 2011, pp. 177, € 20) ed è scritto da un giovane filosofo, Giuliano Torrengo. Il film, The Clock, concepito e scritto da Christian Marclay, è quello che si è aggiudicato il Leone d’oro alla Biennale di Venezia in corso.
Il filo conduttore che li lega è ovviamente il tempo: la nostra capacità di concettualizzarlo, di individuarne i paradossi e di giocarci. In fondo sappiamo bene come l’uomo coltivi da sempre due sogni: riuscire prima o poi a volare, e inventare macchine del tempo che gli consentano di scorrazzare su e giù tra passato e futuro, per vedere ciò che sarà o, addirittura, per cambiare ciò che è stato, ma che “poi” ha scoperto sbagliato o ingiusto o che, più semplicemente, si è perso quella volta e per sempre.
Se Edipo avesse avuto a disposizione una macchina del tempo, cosa avrebbe fatto? C’è da scommettere che avrebbe cercato di incontrare il suo sé precedente, ma quale? Lui che fuggiva turbato da Corinto? Oppure avrebbe cercato di convincere il suo sé giovane a non uccidere Laio? Avrebbe implorato Giocasta di non amarlo? Al crocevia di tutte queste possibilità, quale avrebbe scelto, chi sarebbe diventato? Gli sarebbe stato possibile cambiare anche un solo dettaglio della storia rimanendo pur sempre lui?
E se fosse tutto un inganno? Se ci illudessimo di avere presente, passato e futuro, mentre il tempo altro non è che il ripetersi di noi stessi e della storia all’infinito? Nietzsche era ossessionato da quest’idea, tanto da pensare che la vera forza sia la capacità di resistere al peso di questo pensiero, al pensiero di un movimento senza cambiamento.
Se poi troviamo troppo stressante viaggiare sulla macchina del tempo, allora ci basterà, più prosaicamente, dedicare un po’ del nostro tempo a The Clock. Il film sfida i consigli di saggezza impartiti da Aristotele nella Poetica: è meglio non abusare della pazienza dello spettatore se vogliamo appassionarlo. The Clock è lungo ventiquattro ore, ma è tutt’altra cosa rispetto a precedenti illustri come Empire di Andy Warhol. Anche in Empire il protagonista è il tempo – una macchina da presa che filma per tutto un giorno l’Empire State Building senza staccare mai e senza mostrare altro che il grattacielo e i cambiamenti di luce in cui è avvolto, parla del tempo per via negativa, allo stesso modo di Agostino. In Empire manca completamente il movimento: provate a sedervi e a guardarlo e vi accorgerete subito di quanto il tempo possa essere pesante e greve. The Clock, invece, ci racconta il tempo con meravigliosa leggerezza: lo spettatore non conosce noia, giacché gli accade di viaggiare senza bisogno di macchine o di strani congegni. Gli sono sufficienti la sua memoria e il suo orologio da polso. La prima gli servirà per ricostruire le decine di citazioni di cui è composto il film, il secondo per verificare la sincronia tra i tempi della realtà e quelli della finzione cinematografica e sciogliere il suo stupore.
La trama è costruita da decine di citazioni (1.440 frammenti di film lunghi un minuto, dove ogni successivo minuto è segnalato da una parola, uno strumento di misurazione del tempo, un segnale sonoro) tratte da film più o meno famosi, la maggior parte dei quali dice moltissimo alla nostra memoria. E qui lo spettatore incomincia a giocare, entrando in un tempo in cui si mischiano la sua storia personale e la storia del cinema. In ognuna di quelle scene si parla del tempo, si mostra il tempo e, soprattutto, il tempo della finzione coincide, istante per istante, con il tempo della vita reale. In qualunque momento entriate in sala, il vostro tempo sarà lo stesso del film e il film sarà un susseguirsi di racconti disarticolati, di storie e di domande che si aprono in una dimensione temporale per comporsi magicamente e proseguire in un’altra.
Sarà la finzione a scandire il tempo della vostra giornata e vi permetterà di osservare l’incanto di possibili incroci temporali, attraverso trame che si frantumano per ricomporsi in un’altra dimensione e con un diverso racconto, perché il tempo, se potessimo anche solo scomporlo, come si fa con le tessere di un puzzle, per poi ricomporlo, ci riserverebbe meraviglie.
Tiziana Andina
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