“I musei? Non possono essere solo dei luoghi di sperimentazione, sono luoghi in cui si fa la storia, si fa la didattica, si sostengono dei valori. Dimenticarci di questo significa condurci all’effimero: se vogliamo, una delle grandi carenze del sistema museale italiano è proprio il fatto di inseguire troppo le mode e di non aver consolidato il valore storico della propria esperienza”. Sostiene a spada tratta la scelta di gettarsi – anema e core – nell’operazione di rivalutazione storica dell’Arte Povera, Gianfranco Maraniello, il direttore del MAMBo di Bologna, che proprio venerdì ha inaugurato la prima delle otto mostre del megaprogetto targato Germano Celant e spalmato sul 2011 e buona parte del 2012. E – intervistato da Artribune alla vigilia – ostenta idee molto chiare e decise sul ruolo dei musei, sull’importanza di fare sistema soprattutto in una dimensione internazionale, sulle prospettive con le quali affrontare momenti di crisi.
Insomma, per un museo come il MAMBo non rischia di apparire un po’ come una resa sul fronte della ricerca contemporanea?
Assolutamente no, questo è un pregiudizio. Io ricordo l’allestimento della mostra di Giovanni Anselmo, a mio modo di vedere uno dei massimi artisti del Novecento. Mentre alcuni operai tiravano su un’opera molto pesante, Giovanni mi disse in un momento di confidenza: “Sai Gianfranco, questa è la mia prima vera mostra in un museo italiano”. Non dimentichiamolo, alcuni di questi artisti in realtà non hanno mai avuto l’occasione di una collocazione storico-scientifica dei processi da loro attivati, e il riconoscimento del loro valore linguistico. Riconoscere questo significa fare i conti con la storia, che è uno dei compiti dei musei.
Proporre oggi questa rivalutazione dell’Arte Povera significa darle una definitiva collocazione storiografica, o lanciare germi creativi vitali nel panorama attuale?
È chiaro che il compimento istituzionale del percorso dell’Arte Povera, con il coinvolgimento dei musei, nel Paese dove l’Arte Povera è nata, è un’operazione storiografica, e proprio per questo “lancia” nuove aperture interpretative. Diventa un momento storico – come dice Celant – per dare le consegne ad altro, a partire dall’ermeneutica. Questa è un’operazione che investe il territorio italiano, e proprio per questo finalmente pone l’Italia come un paese che riesce a comunicare all’esterno un’idea di sistema. Un evento di rilievo internazionale, l’Italia che fa finalmente i conti con la propria storia, cosa che non era mai ancora accaduta.
E nel progetto del MAMBo, come si inserisce la partecipazione, con il ruolo addirittura di “apripista”?
La mostra di Bologna recupera una traiettoria, che è uno dei filoni aperti dal MAMBo di recupero di quello strappo linguistico in merito al quale oggi i musei ancora non hanno saputo accogliere le provocazioni dell’arte che è uscita da un’esposizione tradizionale. Se dobbiamo guardare a quello che è accaduto, questa è la grande occasione di consegna storiografica dell’Arte Povera ai musei e alle loro aperture interpretative. Non a caso il museo aveva già dedicato mostre a Zorio, a Penone, e Giovanni Anselmo fu il protagonista dell’ultima mostra dell’era GAM.
Poi, attenzione: i musei hanno anche il compito di documentare il valore storico degli eventi in relazione all’ambiente in cui operano: e allora la mostra attuale parte non soltanto da una delle prime mostre storiche dell’Arte Povera, quella del febbraio del 1968 alla Galleria De’ Foscherari, ma anche dal primo tentativo di iscrizione del movimento in un dibattito critico, che furono proprio i Quaderni della De’ Foscherari. In occasione di Artelibro, e in concomitanza con l’inaugurazione, ci sarà anche un’esposizione legata all’editoria dell’Arte Povera.
Uno sguardo all’attualità più stringente: nell’ottica di crisi finanziaria globale, come si muove il museo del terzo millennio?
Sicuramente bisogna fare i conti con condizioni mutate: non abbiamo ancora idee chiare, ma possiamo prefigurare scenari che sono a tinte fosche per l’intero paese, non vedo perché non dovrebbero esserlo anche in termini di disponibilità finanziarie. È chiaro che dovremo inventarci nuovi modelli: anche il fatto, in questa occasione, di un lavoro in rete, è stata una formula abbastanza semplice, ma tutto sommato inedita per il sistema italiano. Musei che si mettono insieme, creando condizioni economiche sostenibili, ottimizzando costi, condividendo partnership strategiche.
Ovviamente questo è soltanto l’inizio, c’è la necessità di reinventarsi la sostenibilità dell’oggetto “museo d’arte contemporanea”. Siamo di fronte a un punto se vogliamo di chiusura che diventa simbolico: l’Arte Povera opera quello strappo linguistico, quella avversione alla cristallizzazione delle forme, ponendo l’attenzione ai processi? Bene, se questo è accaduto in arte, credo che anche le stesse istituzioni oggi debbano saper spostare i propri obbiettivi e la propria operatività dalle modalità già sperimentate a processi nuovi, a pratiche inedite, anche con scelte che faranno storcere il naso a parecchi, perché lo status quo non è più difendibile.
Massimo Mattioli
Bologna // fino al 26 dicembre 2011
Arte povera 1968
a cura di Germano Celant
www.mambo-bologna.org
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati