L’economia dell’impotenza. Tra Balthus e Mendoza
Balthus e Mendoza, così lontani e così vicini. Entrambi affascinati dal mistero dell’adolescenza, quando l’innocenza svanisce e si affaccia l’idea del peccato. Una riflessione teorica originale mette a confronto due modi di raccontare l’erotismo in pittura. Un erotismo che, come ricorda Bataille, non è in ciò che si mostra, ma in ciò che rimane occulto.
“Vedo le adolescenti come un simbolo. Non potrei mai dipingere una donna. La bellezza dell’adolescente è più interessante. L’adolescente incarna l’avvenire, l’essere prima che si trasformi in bellezza perfetta. Una donna ha già trovato il suo posto nel mondo, un’adolescente no. Il corpo di una donna è già completo. Il mistero è svanito.” (Balthus)
Violenza e deliquio? Piacere nel suonare – esser suonati come – uno strumento vivo, oggetto vibrante del desiderio. Tortura prepubescente della libido, impossibilità psicoanalitica che può darsi solo come eccesso dell’inconscio in una pittura intrinsecamente borghese (la lezione musicale, l’educazione privata) diretta a un pubblico post-borghese che, già metabolizzato l’informale, l’astrattismo e l’espressionismo, potesse appropriarsi di una figuratività incoerente. Balthus, tra un soffuso e molto intimo surrealismo e geometrie quattrocentesche, espone La leçon de guitare nella primavera del 1934 a Parigi, nell’ambito della sua prima mostra personale curata dal giovane gallerista Pierre Loeb. La violenza presente nella tele dell’artista non sfuggirà all’amico Antonin Artaud, celebre cantore della crudeltà fatta rappresentazione, che preparerà una recensione della mostra per i tipi della Nouvelle Revue Française.
Destino singolare quello de La leçon de guitare: similmente a L’origine del mondo di Courbet, il dipinto rimase nascosto al pubblico per decine di anni, e ancora oggi si sottrae al circuito museale perché appartenente alla collezione privata della famiglia di armatori greci Niarchos. Unica opera dichiarata esplicitamente erotica da parte dell’artista, intendeva rappresentare, secondo le parole dello stesso Balthus indirizzate alla fidanzata Antoinette de Watteville, “alla luce del sole, con sincerità e partecipazione, tutta la tragedia e l’emozione di un dramma della carne, proclamare a gran voce le incrollabili leggi dell’istinto. Tornare in tal modo a un’arte dal contenuto passionale”.
Eppure, Balthus avrà modo di sigillare questa passione feroce in corpi attraversati da forze che, dinamicamente, li mantengono in una posizione di vibrante sospensione. Tutte le giovinette che affollano i suoi dipinti vivono il dramma di un’età che le mette a stretto contatto col morbo della formazione: si tratta di svegliarsi sulla propria storicità, sull’avventura della conquista di un ruolo e di un’identità, sul divenire-donna dell’innocenza, quindi sull’accesso alla dimensione della colpevolezza. Balthus lo dice chiaramente: nella donna il mistero è svanito; l’adolescente conserva invece i tratti del mondo mitico dell’infanzia e lo stigma della contraffazione che è propria della femminilità. Incubo di un corpo che è un entre-deux tra il pudore dell’amoralità e l’impudicizia della moralità, tra retroflessione e seduzione. Conflitto-confluenza più che evidenti in dipinti come quelli della serie dedicata alla piccola Thérèse.
Lo spirito di questa femminilità impotente, in potentia, pare abbia infestato, chissà quanto surrettiziamente, certi lavori del contemporaneo transnazionale Ryan Mendoza. Filiazione degenerata, forse. Difficile non scorgere nelle serie The possessed e While you were away certa elaborazione dell’adolescenza come periodo di passaggio trasognato ed estraneo a se stesso, sempre incapace di mettersi a fuoco, ed è per questo che Mendoza chiede all’osservatore, voyeur come in Balthus e ora anche complice, di testimoniare la caducità di una vita che viene fissata in posizioni scomode (figure in caduta, sdraiate sul pavimento, trascinate, raccolte) per dare il senso di una minaccia che incombe, la minaccia del tempo come misura della responsabilità.
Mutismo della comunicazione (dell’)impossibile, bambina sopra e iperdonna – uomo impotente orizzontale, ctonio e forse strisciante come un verme (Gea verminosa) – sotto. Costruzione che ricorda una singolare lumaca in cui è il guscio – insostenibile leggerezza del desiderio a venire – a trascinare l’animale e non viceversa. E lo trascina verso un oceano di immobilità, in cui il logos è all’oscuro (di tutto), schiacciato e impossibilitato a riverticalizzarsi, erigersi, impossibilitato a ridettar Legge. Ah, dolce utopia, felix culpa!
Figurazione dell’andar oltre se stessi, al di fuori della tela e della storicità. Anacronismi distillati eppure sempre gravidi di tensione oggettivante – l’onnipresente carta da parati è lì a testimoniare il decorativismo sfrenato di una borghesia che non perdona l’inadempienza (do nothing) ma che pretende l’armonia delle forme nell’abbandono delle teorizzazioni critiche: abbellire per conciliare l’appiattimento sociale, la donna-uomo a una dimensione.
“Guardaci: non siamo forse già perduti? Eppure puoi preservarci, puoi conservare la nostra infallibilità!”. Così sembrano voler dire queste figure dalla carica erotica sfrenata, perché l’erotismo non è mai in ciò che si mostra ma in quello che c’è di occulto nei corpi, in ciò che è contrario all’azione (l’esperienza interiore di cui parlava Georges Bataille). L’adolescenza come immobilità dinamica, in un paesaggio di contraddizioni e falsi pudori – la dimensione adulta del mondo come forma incrinata – che ammicca a uno sguardo che giudica perché già preda della logica della sanzione: ogni movimento ha un peso specifico, una responsabilità oggettiva, è punibile.
Lo scandalo è allora, in Balthus come in Mendoza, non nelle figure rappresentate ma nella camera buia, rischiarata dalla luce radente dell’avvenire giurisdizionale, del collocamento sociale. Oltre l’adolescenza c’è il centro per l’impiego.
Nicola Apicella
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