Beauty of the breakdown. Around Syracuse, stato di New York
Lo stato di New York ha Albany come capitale. New York come città più famosa. Poughkeepsie come città dal nome più assurdo. E Syracuse? Che caratteristica ha Syracuse con il sul canale e il suo passato industriale? Passeggiata in città per parlare di pittura. Seguiteci a vostro rischio.
Syracuse, come molte altre città industriali degli Stati Uniti, ha un glorioso futuro alle sue spalle. Preserva la memoria di una via d’acqua, il Canale di Erie, che nell’Ottocento fece grande coi suoi commerci l’intera regione di New York, osserva il lento disfarsi di fabbriche in mattoni rossi e bianche ville coloniali. Attende, in generale, tempi migliori, mantenendosi nell’attesa intorno a una prestigiosa università privata, il cui museo, mentre chi scrive si è trovato a passarvi nel settembre 2011, ospitava una retrospettiva di Jerome Witkin.
In Italia il nome può non suonare familiare a molti – più noto è probabilmente il fratello gemello, Joel, le cui disturbanti fotografie sono state esposte nel 2008 a Milano insieme a quelle di Jan Saudek – ma negli Usa Jerome Witkin è considerato un assoluto riferimento della pittura figurativa: Donald Kuspit, per dire, ha parlato delle sue smisurate composizioni come “sogni nella maniera visionaria degli antichi maestri”.
La mostra rappresenta un’opportunità interessante per ragionare un poco, tra l’altro, delle sorti della pittura figurativa statunitense. Un’arte che, tanto più quando incentrata su contenuti politici e sociali, nell’ultimo cinquantennio ha perso progressivamente visibilità, ma non certo vitalità, riemergendo di tanto in tanto in occasioni come quella di Syracuse, per poi tornare a uno scorrere carsico.
Quanto all’opera di Witkin, una maniacale costruzione del disegno e una tecnica a olio sontuosa sono a servizio di una violenza tematica e visiva sconcertante, distribuita su superfici ampie che, con aggressività cinematografica, imprigionano lo sguardo del visitatore. “Comunque tu dipinga le pitture più grandi, ci sei dentro. Non è qualcosa che tu possa controllare”, diceva Mark Rothko a proposito delle sue enormi tele: una riflessione che certo si attaglia bene a Witkin. Nella mostra di Syracuse, in particolare, interni di violenza domestica si alternano a rappresentazioni, spesso accese da bagliori allegorici, di campi di concentramento e devastazioni terroristiche. Alcune opere rimandano, con mirati omaggi, a maestri come James Ensor o Kathe Kollwitz (quanto al pensiero dell’osservatore, preso ad aggirarsi per il silenzio soffuso del museo in preda al solito vizio critico di ricercare consonanze, riandava a Lucian Freud per l’intimità della pittura a olio, al più nero Riccardo Mannelli per i soggetti rappresentati).
Ci sono, pure, ritratti genuinamente amichevoli, autoritratti affilati, e, ancora, un’intensa serie di rovine industriali syracusane. Qui, numerosi fili dell’arte statunitense si riannodano, dalla scenografia pittorica della Ashcan School alla malinconia periferica di Edward Hopper, se non fosse che, appena usciti dalla mostra e incamminatisi per la città, il filo delle reminiscenze artistiche si perde presto nel groviglio della realtà materiale: una realtà di disarmo e, insieme, singolare bellezza. Beauty of the Breakdown, secondo l’espressione di un’amica americana che, non a caso, vive a Roma, e di una simile bellezza, dunque, può ben intendere
Quando abbiamo chiesto a Witkin le ragioni sottostanti la sua scelta dei soggetti più ricorrenti, ci siamo sentiti citare l’ansia di “dipingere persone, perché potranno essere cancellate dalla storia”, quindi richiamare la hard reality di artisti come Ben Shahn e Alice Neel. Sono due nomi che segnano una linea di forza interessante nella pittura americana, dichiaratamente politica.
Alice Neel? Si tratta di un’artista importante non solo per l’aver virato all’espressionismo la ritrattistica del primo Novecento americano, ma anche per un’attenzione costante a soggetti emarginati e marginali, dai migranti al corpo dei vecchi.
Ben Shahn? Si confida verrà finalmente il tempo in cui sarà riconosciuto anche dal grande pubblico come uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Nell’attesa che ciò avvenga, il tempo corrode l’argento delle sue fotografie della Grande depressione, scurisce la pittura delle sue formidabili scene d’interni e manifestazioni popolari, consuma lo smalto delle opere pubbliche sparse per gli Stati Uniti. A proposito di queste ultime, proprio a pochi passi dalla mostra di Witkin, nel campus della Syracuse University, un vasto mosaico riproduce la passione di Sacco e Vanzetti, tra i più celebri soggetti dell’artista di origini lituane. Al solito, Shahn dimostra una potente capacità di trasfigurare i soggetti ritratti senza ridurre mai le figure a meri pretesti di protesta, a sagome politiche: lungi dal tradire una morta rigidità tematica (sul genere, per intendersi, del realismo socialista est-europeo), le opere dell’artista si mostrano vive, genuine. Una caratteristica, questa, che non si ritrova in nessun ordinario casellario di teoria dell’arte e, proprio perciò, rende propriamente qualche tratto almeno dell’ineffabilità dei sentimenti che l’arte può produrre.
Shahn è genuino; Witkin, viene da considerare, aspira a esserlo; la bellezza rotta di Syracuse è genuina, e così la povertà della società corrente che si specchia in questa città come metafora di una crisi ben più grande. Si può pensare che tutto questo sia politico? E se non lo è, che cosa è politico?
Lasciata la mostra di Witkin e il mosaico di Shahn, in una strada di periferia si trova una strana galleria d’arte, ArtRage, sui cui volantini si legge dell’impegno a “rompere i confini del mondo dell’arte a proposito di chi sia benvenuto”. Nell’ampio spazio espositivo, in effetti, si tengono di continuo riunioni di artisti, mamme con bambini al seguito, disoccupati. Sui muri, al momento, sono appesi i manifesti di un’artista californiana, Favianna Rodriguez, i colori e tratti accesi da un attivismo che invita a non cedere alle ingiustizie, a impegnarsi per capire le cose, e cambiarle.
Tutto si tiene, viene da pensare in queste camminate lungo una piccola città americana, dall’arte alla crisi, e niente torna. Non cambia poi molto rispetto ai passi, perplessi e preoccupati, che capita di consumare una volta tornati in Italia.
Luca Arnaudo
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