Fotogiornalismo. Dead or alive?
C’è chi dice che l’epopea eroica del fotogiornalismo sia finita. Ormai i reportage dai luoghi di guerra o da quelli dove si stanno svolgendo disastri naturali li fanno i cittadini. O le videocamere di sorveglianza lasciate accese per errore. Intanto - o forse proprio per questo - il fotogiornalismo viene riscoperto dal mercato.
Non sempre accettato di buon grado nel novero delle arti visive e spesso confinato in ambito documentario, scientifico, etnografico o di costume, il fotogiornalismo ha una grande tradizione. Il mercato di questo settore è negli ultimi anni cresciuto in modo rilevante, specie negli Stati Uniti, parallelamente all’interesse manifestato da parte di importanti musei, attraverso acquisizioni e mostre dedicate.
A rappresentare un interessante settore di investimento stanno soprattutto i prezzi, ancora contenuti. In un range tra i 1.000 e i 10.000 dollari sono accessibili lavori di celebri reporter e fotogiornalisti. Nell’ancor breve storia della fotografia i nomi di cui si tratta li si potrebbe considerare tranquillamente gli alter ego di Picasso o Michelangelo nella pittura: Edward Steichen, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Robert Doisneau, Walker Evans, Dorothea Lange sono star indiscusse la cui aura, con buona pace di Walter Benjamin, appare in costante crescita.
Di Steichen l’esperimento pittorialista titolato The Pond-Moonlight, realizzato nel 1904 con la stesura manuale di gomma fotosensibile, nel febbraio 2006 ha raggiunto il prezzo di 2,9 milioni di dollari. Ma Steichen fu innanzitutto fotografo di guerra: ebbe incarichi di rilievo durante i due conflitti mondiali, dedicandosi in seguito a ritrarre le star della moda e dello spettacolo per le maggiori testata dell’epoca, tra cui Life, per la quale realizzò una celebre copertina con Greta Garbo.
Si deve all’iniziativa di Alfred Stieglitz, dalla Photo-Secession a Camera Work, se accanto alla fotografia di reportage e documentaristica vennero sviluppandosi, a partire dall’inizio del XX secolo, nuovi ambiti di sperimentazione visiva più prossimi alle arti, non a caso caratterizzati inizialmente da una diffusa vocazione pittorica.
Con l’avvento della fotografia, i principali eventi storici si sono fissati nella memoria collettiva attraverso le immagini. Nel 2011 ha fatto scalpore il ritrovamento di una valigia contenente una straordinaria documentazione fotografica sul conflitto civile spagnolo. Gli autori dei 4mila scatti, in buona parte inediti, sono appunto Capa, Gerda Taro e David Seymour, tra i principali esponenti del giornalismo fotografico di guerra.
La fama di molti fotoreporter procede di pari passo con quella dei loro scatti e serie più celebri. Vale per Il miliziano colpito a morte di Capa ma anche per Mathew B. Brady, pioniere della fotografia di guerra durante la Secessione americana, per Weegee e gli episodi di cronaca nera newyorchesi o per Walker Evans, la cui notorietà è legata alla rappresentazione della crisi economica degli anni ’30.
E in Italia? I nomi di Letizia Battaglia e Franco Zecchin si associano alla rappresentazione dei delitti di mafia e del clima degli “anni di piombo”, Mario De Biasi alla Milano del dopoguerra, Tazio Secchiaroli e Marcello Geppetti all’epopea dei paparazzi e alla Dolce Vita.
Sul mercato della aste, i prezzi più alti attribuiti a scatti di Weegee si aggirano intorno ai 25mila euro, ma l’85% delle aggiudicazioni, numericamente rilevanti, non superano i 3mila. Risalente al 2006 da Sotheby’s a New York è il record di un lavoro di Walker Evans: 218.478 euro per Alabama Tenant Farmer (Floyd Burroughs), del 1936. L’artista ha spesso superato i 50mila euro, ma anche nel suo caso prezzi contenuti per opere di altra epoca sono molto diffusi.
Nel 2008 è stata ricordato il centenario della nascita di Henri-Cartier Bresson, figura mitica di fotoreporter. La scelta di non limitare le tirature delle stampe ha favorito la diffusione e la circolazione delle sue opere, ma ha anche contenuto i prezzi, che tuttavia appaiono in costante incremento. È ovvio che in un mercato così allettante è importante valutare con attenzione l’origine delle stampe e la provenienza, assicurandosi le migliori garanzie offerte da mercanti qualificati. Per gli italiani il credito internazionale in ambito collezionistico è tutto da costruire. Il traino dell’età d’oro del cinema di casa nostra, segnatamente il movimento neorealista e la Dolce Vita felliniana, da opportunità è divenuta una sorta di gabbia dorata che rende la fotografia italiana vittima dei suoi miti.
Ma a un giovane mercato in sviluppo, il fotogiornalismo come attività e mestiere sembra oggi opporre la sua morte prematura dettata dalla rivoluzione in atto nel mondo dell’informazione. Nel 2009, in piena crisi finanziaria, David Jolly sul New York Times ne celebrava il funerale; non solo le difficoltà economiche della stampa internazionale tra le cause, ma soprattutto la rivoluzione digitale, che hanno indotto a un cambio strategico dell’informazione, orientata sempre più a raccontare la storia in diretta, pescando nel mare dei documenti realizzati live con foto-videocamere digitali o cellulari.
Neil Burgess, proprietario dell’agenzia NB Pictures e già a capo della Magnum, rileva come i nuovi fotogiornalisti si specializzino negli ambiti dello sport e della moda, si concentrino sull’evento ma non siano più in grado di raccontare storie, semplicemente perché giornali e riviste non ne chiedono (e ne comprano) più. Il dibattito sul destino del fotogiornalismo è divenuto vivace negli ultimi anni: tra chi ne sostiene la scomparsa e chi sposa la teoria di una mera trasformazione. Le rivolte nei Paesi africani sono state raccontate con immagini realizzate da gente comune che vive gli accadimenti di persona; nel caso del devastante terremoto giapponese le riprese più drammatiche sono state fatte addirittura da videocamere di sorveglianza o dispositivi rimasti casualmente accesi durante lo tsunami. Non c’è nulla da raccontare, l’evento semplicemente accade davanti ai nostri occhi.
Recentemente a La Virreina Centre de la Imatge di Barcellona, Carles Guerra e Thomas Keenan hanno curato un progetto dal titolo Antiphotojournalism, termine inventato dal fotografo e critico statunitense Allan Sekula e che definisce appunto la multiforme galassia dell’informazione, i nuovi scenari del reportage e dell’immaginario collettivo, non più basati sui canoni classici della rappresentazione della realtà ma sull’interpretazione soggettiva e sul cosiddetto citizen journalism collaborativo. Il reportage si fa non solo interpretazione della realtà, ma invenzione di realtà. Il campo d’indagine diventa sempre più indistinto e si allarga a ciò che succede intorno o dietro l’evento. La centralità del fatto storico è continuamente rinegoziata e si proietta nella vita reale dei singoli individui, che diventano protagonisti, trasformando la storia in un mosaico di microstorie.
Alfredo Sigolo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #2
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